La presenza del male come forza distruttrice si manifesta nella storia con migliaia di croci che gli uomini pre­parano ad altri uomini: tanti sono appesi a qualche croce o fanno della propria vita un calvario portando la croce della discriminazione per il fatto di essere portatori di handicap, extracomunitari, malati, sieropositivi o omosessuali, tutti condannati ad una forma di esclusione e di morte sociale.

Cosa significa, in questo contesto di crocifissi, predicare Gesù Cristo?

Significa annunciare il tremendo giudizio di Dio che smaschera certi equili­bri sociali come forma di dominazione, servendosi a volte anche degli apparati istituzionali; quindi dichiarare apertamente l’ingiustizia per quella che è: la povertà come processo di impoverimento della gente a causa di certe “posizioni” (sociali, politiche e religiose), ruoli e benessere ottenuti con delle maggioranze costruite ad hoc nelle aule assembleari. Quando il profeta si alza per denunciare le croci ingiuste e violente, può esser certo di dover fare i conti con la persecu­zione cominciando con l’inciucio e la calunnia, perché la croce e la morte hanno sempre accompagnato certi progetti alternativi.

La morte di Gesù quindi è il prezzo pagato per la sua incondizionata dedizione alla causa “umana”. Egli si è presentato ai suoi connazionali non come un ministro del culto, ma come un profeta di Dio; non ha officiato nel tempio di Gerusalemme e neppure nella sinagoga di Nazareth; non ha speso la vita ad impartire benedi­zioni, ma nel compiere opere di bene: “Passò guarendo tutti dalle loro infermità” ricorda Pietro (At 10,38). Il suo servizio si è svolto nel quotidiano dove le persone vivono e soffrono, non nel recinto del sacro. Ha aiu­tato i poveri ad uscire dalla loro indigenza, i peccatori a ritrovare la strada di Dio e del bene, gli emarginati a riacquistare il loro inserimento comunitario e sociale. La sua preoccupazione è stata quella di ridonare alla gente la felicità derubata.

Nell’ultima cena Gesù ha voluto raccogliere questa sua esperienza in un rito che ne mettesse in risalto il significato. Ciò che chiedeva ai suoi non era ripetere con scrupolosa esattezza quello che nel cenacolo aveva compiuto adoperando pane e vino, ma quello che rappresentavano. Egli aveva spezzato non il pane ma la vita versando tutto il suo sangue. La stessa cosa dovevano tentare di fare i suoi seguaci; è la scelta che chiede ora ai suoi amici: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24). Ebbene questi profeti possiedono una tale intensità di vita da non poter essere inghiottita dalla morte.

La liturgia, lontana dai ritualismi recitati come copioni, diventi il momento in cui l’assemblea si confronta con l’agire di Dio e di Cristo e cerca di far proprie le rispettive istanze: è un commento festoso per ciò che si è riusciti a realizzare e quanto si è disposti a fare per il futuro.