La sera del Giovedì Santo la proposta di Gesù Cristo raggiunge il suo vertice: è lì, tra i discepoli, dove ri­siedono Pietro e Giuda, entrambi prossimi traditori, che Gesù inizia la sua passione nell’incomprensione di tutti.

In quell’ultima cena, è stato sufficiente che i dodici abbiano guardato, ascoltato e aperto le mani; quello che hanno ricevuto, poi, non è dipeso né dalla loro comprensione né dalla loro intuizione; quindi, dal momento che Gesù ha messo nelle loro mani il pane e il calice del vino, il dono che ha fatto non appartiene più a lui, al Cristo; ora tutto dipende dalle mani di chi coloro che lo hanno ricevuto: il mangiare, il bere, il passare agli altri e il tutto passarlo alla storia. Il pane e il vino sono elementi fondamentali di questa Eucaristia; però questi beni sono anche i simboli dei beni della terra e del lavoro dell’uomo: di tutti quei beni che sono la causa prima della nostra separazione e della nostra disuguaglianza, i simboli della non fraternità e della esclusione.

Dietro l’istituzione dell’Eucaristia, quindi, ad angosciarci è la nostra convivenza che diventa condizione di so­pravvivenza. Noi uomini non abbiamo saputo raggiungere l’uguaglianza; i beni sono stati spartiti in maniera iniqua, creando squilibri che solo forti scosse rivoluzionarie sembrano in grado di poter smuovere. Il sacri­ficio eucaristico è quindi questo passaggio dalla disunione, dalla frammentarietà, dall’individualismo alla fraternità e alla comunione. Tutto questo lo si può realizzare solamente dal basso, mettendosi alla scoperta delle piaghe dell’umanità: il mettere il dito e le mani nel costato aperto equivale ad entrare nel cammino della storia, che si muove  proprio a partire dal medicare queste piaghe, condividendo non in forza di un’appartenenza etnica, ideologica o familiare, ma in nome di quel pane spezzato e non accumulato.

Il pane non va dato perché l’altro se lo è guadagnato, ma perché tu lo hai accolto come fratello nel tuo oriz­zonte di vita. Se Gesù si fosse limitato a dare il pane senza il proprio corpo, il suo sarebbe stato un gesto di distribuzione che, anche se avesse sfamato i corpi, non sarebbe stato capace di trasformare le voci in coro di comunione. L’Eucaristia è quindi l’offerta di uomini liberi che non entrano soltanto in contatto con i pro­pri simili, ma si lasciano compenetrare e interrogare.

Gesù ha celebrato la sua ultima cena in una situazione di conflitto e di morte: non è il conflitto ad impedire la celebrazione; la celebrazione è anche il tentativo di superare il conflitto impedendo che questo strumen­talizzi unioni e riconciliazioni di facciata. L’Eucaristia è anche un dono fatto a coloro che sono po­tenzialmen­te traditori, esposti alla crisi come Giuda e Pietro, chiamati a lottare in mezzo a mille diffi­coltà: la con­dizione di costoro non è incompatibile con la convocazione alla stessa mensa.

Una comunità serva, con le mani sporche, non può sfuggire alla morte, non la morte gloriosa dell’eroe, che si sacrifica per salvare gli altri, e neppure la morte ammirevole di tutte le vittime del dovere, ma la morte assurda e inutile di tanti; peggio ancora, Gesù muore della morte dei criminali, maledetti dalla legge religiosa.

Questo è il corpo evan­gelizzatore offerto in sacrificio e posto nelle mani di coloro che, forse, non credono ancora pienamente in Gesù di Nazareth.