L’avvincente romanzo di Maria Antonietta Vito
Ci vuole coraggio a portare a termine un libro di quasi cinquecento pagine, scritto in una lingua avvolgente, ricca e variegata, che si apre con un incipit che subito spiazza: al modo d’una sequenza cinematografica, nel Prologo, ci troviamo davanti il primo piano di una casa dalla «faccia stanca, sbattuta, malata, un cubo di pietra grigia, screziata, d’un rosso pompeiano…». Questa casa, a qualche chilometro da un paese anonimo, simile ad altri sulla falda vesuviana, è il punto di partenza delle vicende narrate nel romanzo di Maria Antonietta Vito (La ferita originaria, Castelvecchi, 2023). Vicende che si distendono su un arco di tempo ampio, dagli anni venti ai sessanta del Novecento: in mezzo, fondamentale, la cesura del secondo conflitto mondiale con le immani distruzioni portate nei luoghi e nelle esistenze dei più deboli. In questa casa, nasce e vive Gaetano: dalla sua tragica vicenda, dal suo graduale sprofondare nella follia, scaturisce, direttamente o indirettamente, l’intero intreccio del romanzo. Gli altri personaggi che si affollano e animano il racconto sono bambini, adulti, uomini e donne, che danno vita a nuove e complesse storie, in cui ognuno fa i conti con una «ferita originaria» che ne condiziona l’esistenza rendendola grama e difficile. Ciascuno, di volta in volta, deve fare lottare con la povertà, materiale o culturale, la mancanza di affetti, la solitudine, la malattia, fisica o mentale. In un corpo a corpo col proprio amaro destino, vanno snodandosi le vicende di personaggi realisticamente connotati, ma portatori di evidenti significati simbolici. Ciascuno, infatti, nella particolarità della storia che vive, si misura con problemi e domande universali, che tuttora ricorrono nelle nostre vite, quelle degli umili come quelle degli uomini di cultura.
Ma veniamo, in breve, alla trama del romanzo. Il racconto si apre sulla figura del piccolo Tanino, la cui madre muore nel metterlo al mondo. Crescendo, il bambino si esprime in gesti scomposti e poche, incomprensibili parole, rifiutando ogni disciplina. Vive in un contesto popolato quasi esclusivamente dalle donne che si prendono cura di lui e della casa. Pur conservando una fisionomia ben definita, esse assumono nel romanzo un ruolo simile a quello del Coro nell’antica tragedia greca. Ciò non significa che siano comparse, o semplici figure allegoriche, anche se i nomi – Sofia, Filomena, Nunziata, Lucia, Amalia… – tradizionali e diffusi nel sud, potrebbero indurre a pensarlo. Al contrario, ciascuna ha la sua personalità e il suo posto nello svolgimento dei fatti: il nome, simbolico, non le fissa in uno stereotipo, ma ne evidenzia la specificità, il modo d’essere in rapporto agli altri. Ad esempio, la vecchia Sofia è portatrice di sapienza, una sapienza popolare che si esprime tutta nel peso e nella sobrietà delle parole che danno senso al suo fare per gli altri; Filomena, ugualmente capace di farsi carico della sofferenza che la vita mette sulla sua strada, si prende cura della sventurata figlia di Tanino, come lui, e a causa di lui, devastata dalla follia. Un male da cui Nunziata, questo il suo nome, non potrà essere guarita, ma la sofferenza le verrà almeno alleviata dal canto e dall’amore di cui Filomena si rivela capace. Anche Amalia – colei che ama ed ammalia – disprezzata nella comunità in cui vive, è figura complessa, la cui storia, al pari di quella delle altre donne, si apre, quasi a ventaglio, a partire dalla vicenda di Tanino. Da questo intreccio scaturisce la struttura circolare del racconto, che ne rappresenta la ricchezza e la suggestione.
Anche i personaggi maschili – Eugenio, il maestro elementare venuto dal nord, ispirato dalla pedagogia di Danilo Dolci, e Salvatore, il giovane attratto dallo studio, entrato per qualche tempo in Seminario – sono presi in quel flusso circolare delle storie che ne garantisce la coerenza e ricchezza di significati. Per vie diverse, e con diversa consapevolezza, i personaggi mostrano tutti grande capacità di guardare in profondità nel dolore e porsi domande radicali, implicitamente filosofiche. Così la vecchia Filomena, a suo modo, riesce a non lasciarsi travolgere dalla follia di Nunziata: laddove medici ed esperti troppo presto calano le braccia, lei riesce a tenerne a bada gli alti e bassi e in ogni caso a lenirne la sofferenza. Ciò che le donne fanno, coi loro poveri mezzi, i due uomini, don Eugenio e Salvatore, lo fanno attraverso la cultura. C’è infatti, al fondo del romanzo, la convinzione che la cultura, quella che passa attraverso la scuola, se affidata a maestri consapevoli, sia in grado d’offrire strumenti di conoscenza molto forti per far fronte alla vita. Eugenio, il maestro, traendo spunto dalla didattica maieutica di Danilo Dolci, cerca di educare alla libertà i bambini dei quali è responsabile, e in questo modo riesce a dar senso anche alla propria vita. Così pure il giovane Salvatore, negli anni trascorsi in Seminario, sostenuto dal maestro che dall’esterno continua a seguirlo con trepidazione, riuscirà, a fatica, a trovare la propria strada e a maturare nella libertà. Ma questo difficile lavoro su sé stessi, e sulla realtà, non soffoca la vitalità dei personaggi, non ne appesantisce l’esistenza, perché essi si rivelano capaci anche di quella leggerezza, quell’ironia, di cui i poveri, gli umili sono maestri.
Quel che più mi ha fatto amare le storie raccontate in questo romanzo è la lingua, accurata, capace di passare con naturalezza dalle situazioni liriche a quelle drammatiche e a quelle comiche. Un critico, a proposito dei romanzi che si vanno pubblicando da un po’ di tempo, ha scritto: «Oggi i romanzieri scrivono (quasi tutti) come si parla al bar. Non c’è nessuna ricerca letteraria specifica». Giudizio forse ingeneroso, ma che coglie una caratteristica presente almeno in parte della scrittura letteraria attuale, non di rado dominata da logiche di mercato, «una lingua dove prevale l’ego, dove il privato domina». Maria Antonietta Vito, in questo testo, forgia una lingua che si avvale d’un italiano ricco, impastato di umori dialettali, dove il ricorso sobrio e sapiente al dialetto ha una precisa funzione: mettersi dalla parte dei personaggi e far emergere in modo spontaneo il loro punto di vista e il mondo da cui provengono.
Un’ultima parola sull’Epilogo: a congedare il lettore è Salvatore, che, accanto alle donne, è il personaggio più affascinante del romanzo. Tornato in paese, nel suo ambiente, dopo aver cercato invano don Eugenio, volontariamente allontanatosi (nella convinzione che i maestri, padri simbolici, debbano lasciar andare i loro alunni), in una giornata di sole, siede di fronte al mare: nella sua vastità, respira l’aria della libertà, e sente che la vita, quella vera, sta per cominciare. È un’occasione che non deve lasciarsi scappare. Scuotendosi, dice a sé stesso «guarda che scemo, a furia di star qui a pensare, mi sono perso il tramonto, m’è passato sotto gli occhi, e manco l’ho visto!». Non è una conclusione, è un inizio quello che lo attende, un vero inizio. La vita, fino a quel momento, è stata solo un lungo prologo…
Un’ultima osservazione. Un romanzo vive se incrocia i suoi lettori. Non c’è bisogno di dire quanto oggi sia difficile farsi leggere ed apprezzare da parte di chi non dispone d’un apparato di sostegno pubblicitario. La ferità originaria non è esente da questa difficoltà. Eppure, ci sono altre vie per arrivare ai lettori: chi ha avuto la ventura e il coraggio di leggere questo romanzo ne è uscito affascinato, e non ne fa mistero. Il passaparola, talvolta, fa miracoli.
***
Sinossi del romanzo
La Ferita Originaria
Maria Antonietta Vito
Il titolo mette a fuoco il nucleo di senso attorno a cui si dipana l’intreccio del romanzo: ciascun personaggio appare segnato da una «ferita originaria», inflitta dalle circostanze di tempo e luogo nelle quali gli tocca vivere. Per il piccolo Tanino, da cui prende avvio il racconto, l’evento originario è la follia che, dall’infanzia, lenta e inesorabile s’insinua nella sua mente, compromettendo ogni possibile legame d’amore. Da lì, nascono altre storie, altre figure, di uomini, donne e bambini, in lotta per non soccombere alla condizione cui il destino sembra inchiodarle. I fili del racconto s’intrecciano in una tessitura in cui le sorti di ognuno sono messe in gioco: ne nasce un «romanzo di formazione» corale che si sviluppa attraverso un intreccio a spirale tra le diverse vicende, sullo sfondo d’un borgo ai piedi del Vesuvio e dalla città di Napoli, sempre contemplata a distanza, dal mare o dalla collina, lungo un arco di tempo dagli anni venti ai sessanta.
Nota biografica
Maria Antonietta Vito ha vissuto infanzia e giovinezza a Napoli, compiendovi i suoi studi, poi a Padova, insegnando e svolgendo attività di scrittura in più ambiti: il romanzo (Il Viaggio, Il disincanto, La ferita originaria), la poesia (La casa dei silenzi, Le stagioni del desiderio, Tutto di te rimane), il teatro (Il silenzio di Jaffier), la saggistica filosofica che, in collaborazione con Domenico Canciani, l’ha portata a dedicare diversi anni di studio a Simone Weil, curando per Castelvecchi l’edizione critica di numerosi testi: Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Viaggio in Italia (2015), L’amicizia pura, Venezia salva (2016), ecc. S’è cimentata anche nella letteratura per l’infanzia, pubblicando, sempre con Castelvecchi, un testo illustrato da Alexandra Stendl: Se sei felice. A passi lenti tra parole e immagini. Suoi contributi di riflessione appaiono su riviste sia cartacee che online (Esodo, Studium, Studia patavina, Odysseo, Scuola e Formazione).