Barattare la riforma costituzionale con un bancomat in salsa partenopea lascia presagire, in ogni caso, una tendenza al peggioramento della costituzione in senso materiale. E non solo.

Beninteso: il 4 dicembre non è il giorno del giudizio. Non suoneranno le trombe dell’apocalisse. Come ha detto Obama, in occasione della vittoria di Trump (/sconfitta di Hillary), il 5 dicembre, comunque, sorgerà il sole. Nessuna catastrofe incombe, né si annunciano “sorti magnifiche e progressive”. Non falliranno le banche, non crollerà l’economia, non resusciteranno Hitler, Mussolini o Stalin. Non tornerà la lira o i telefoni a gettoni. In ogni caso, crescita e prodotto intorno lordo resteranno più o meno costanti.

Non sarà il Sì a darci ferrovie più sicure, più “giustizia”, sanità, scuole e università migliori. Comunque vada, è molto probabile che si voti entro il 2017: se vince il No, Renzi dovrà dimettersi; se vince il Sì, il premier proverà ad incassare la plusvalenza di consenso che il successo referendario molto probabilmente gli assicurerebbe.

L’enfasi data alle pretese ricadute economiche della imminente consultazione referendaria è uno degli aspetti più deteriori di una campagna elettorale deprimente che riguarda quesiti sbagliati tanto nella forma quanto nella sostanza e nella quale poco e male si è parlato del merito.

Manca ancora qualche ora al voto, ma forse non è troppo tardi per sollecitare una riflessione sull’impatto che la riforma potrebbe avere sui primi 54 articoli della Costituzione. Il rischio è che principi e diritti, a parità di testo, assumano significati diversi e minore forza. Di sicuro, attribuendo alla maggioranza poteri amplissimi, nel nuovo gioco dei pesi e dei contrappesi, le garanzie saranno affievolite. Allo stesso tempo si rafforzeranno alcune tendenze mentre altre si indeboliranno.

A livello di “costituzione materiale”, però, la riforma non promette alcuna evoluzione radicale. La riforma non annuncia quel rinnovamento delle classe dirigente e quelle piccole riforme delle nostra vita quotidiana[1] senza le quali nessun cambiamento profondo e duraturo è possibile. Non esiste un “noi” di buoni e puri contro un “loro” di brutti e cattivi. Siamo tutti noi le controfigure di figurine, “personaggetti”, “impresentabili” che alimentano una casta meschina, meritofobica, timorosa di ogni dissenso, ostile ad ogni intelligenza critica che annichilisce il presente dei giovani più talentuosi e, così, compromette il futuro del paese, inabissando se stessa e noi tutti nel blob dilagante di corruttele, camarille e consorterie. Siamo noi (più o meno direttamente) a votarli per inerzia, pigrizia, per piccoli o meno piccoli tornaconti.

Non è solo un problema dell’Italia. In buona parte dell’Occidente, la disintegrazione della “classe operaia”, la massa di nuovi poveri di diritti, di vite di scarto che vivono mediaticamente iconiche e irraggiungibili vite altrui, la scomparsa della borghesia, del ceto medio, alimentano un voto sordo e cieco, come la rabbia muta e miope di chi vede sgretolarsi l’agiatezza di una condizione di relativa tranquillità economica per opera di un sistema (l’establishment!) nel quale agenti bulimici, ma non facilmente identificabili operano come assi “piglia-tutto” e, soprattutto, “distruggi-tutto”.

In Italia, però, va peggio anche perché scontiamo un livello di maturazione civica/civile assai basso, una cultura della legalità carente, una persistente incapacità di agire come sistema, istituzioni meno radicate e solide che altrove. In questo contesto, dice molto degli scenari prossimi venturi il “pensiero” lucidamente espresso dal governatore campano Vincenzo De Luca, in un incontro con 300 sindaci campani, nelle terre di Gomorra (che di sicuro non avrà mancato di ascoltare e apprezzare): il 4 dicembre ci giochiamo l’Italia, se le cose vanno male l’esito sarà imprevedibile. A me interessa che manteniamo la Campania unita sugli interessi fondamentali. Gli altri, destra o sinistra, non hanno mai dato un “accidente di niente” alla Campania. È bastata “una chiacchierata con Renzi. Gli abbiamo chiesto 270 milioni di euro per Bagnoli e ce li ha dati. Altri 50 e ce li ha dati. Mezzo miliardo per la Terra dei fuochi e ha detto sì: lui era terrorizzato per la reazione della Lega, ma alla fine ce l’ha dato”. Non è tutto. “Abbiamo promesse di finanziamenti per Caserta, Pompei, Ercolano, Paestum. Sono arrivati fiumi di soldi: 2 miliardi e 700 milioni per il Patto per la Campania, altri 308 per Napoli, nonostante qualche squinternato. Ancora 600 milioni per Napoli. Che dobbiamo chiedere di più?”. E ancora: “Per la prima volta qui in Campania useremo i fondi europei anche per gli studi professionali”. E non è tutto. Ce n’è pure per la sanità privata: “400 laboratori, sono tanti voti”. Quindi l’esortazione finale “Mi raccomando, mettiamoci al lavoro e non perdiamo tempo col dibattito. Mandatemi fax con numeri realistici dei voti per il Sì. Fate il porta a porta e non pensate ad altro”.

Barattare la riforma costituzionale con un bancomat in salsa partenopea lascia presagire, in ogni caso, una tendenza al peggioramento della costituzione in senso materiale. E non solo. Il discorso del governatore campano è una vera e propria orazione funebre per la nostra Carta fondamentale. Una costituzione è un patto con il domani e per il domani di un paese scritto da uomini che non dovrebbero essere completamente accartocciati sul presente ma – come cantava Pierangelo Bertoli – dovrebbero avere “i piedi nel passato e lo sguardo dritto e aperto sul futuro”.

[1] È il titolo di un fondo pubblicato sull’Avvenire del 26 luglio del 1992 a firma di Giovanni Bachelet, figlio del prof. Vittorio, ucciso dalle Brigate Rosse il 12 febbraio del 1980 anche per il suo impegno riformatore a fianco di Ciriaco De Mita.