Intervista a Giuseppe Mancino

Quando Paolo Giordano si è proposto alla Mondadori non avrebbe mai immaginato che la sua opera, La solitudine dei numeri primi, avrebbe vinto il Premio Strega e Campiello. Dopo tutto, si trattava solo della storia di due personaggi, Alice e Mattia, tormentati dai loro problemi e correlati, in qualche maniera, ai numeri 2.760.889.966.651 e 2.760.889.966.649. Cifre astronomiche, infinite possibilità che segnano il destino di un uomo. Nel libro si traccia il sottile confine tra vittoria e sconfitta, con tutto quello che passa di mezzo, sfumature che critici etichettano come “romanzo di formazione” e, si sa, per ogni formazione che si rispetti è d’obbligo partire dal Numero Uno. Dal canto suo, Giuseppe Mancino non voleva fare il portiere, lo affascinavano gli attaccanti e la loro abilità nel gonfiare la rete. Ma quel giorno il reparto offensivo era saturo di talento e a lui non rimase che indossare un paio di guanti e difendere i pali. A quei pali Giuseppe ci si è aggrappato con tutte le sue forze, ma la polvere del suo album di ricordi lascia intravedere fogli ingialliti di una carriera stroncata, troppo presto, dagli infortuni.

Ciao, Giuseppe. Quando hai approcciato al calcio per la prima volta e che pensieri rievocano i tuoi esordi?

Ho iniziato a giocare a 10 anni nella CST Andria, successivamente sono passato in prestito all’Athena Barletta con cui ho raggiunto la semifinale nazionale persa, a Roma, contro la Romulea di un giovanissimo Alberto Aquilani. La strada, nell’Athena Barletta, si è messa subito in discesa. Prima partita stagionale, Athena-Giovinazzo, rigore parato e pubblico in delirio…

Nonostante la tua giovane età, alcuni club di Serie A, tra cui Lecce, Bari e Sampdoria ti mettono gli occhi addosso. È stato facile per un ragazzino gestire una tale pressione?

Non ci pensavo affatto, il mio obiettivo era divertirmi. Nella stagione 2003/04, ad esempio, venni ceduto al Bisceglie Don Uva, in Promozione. L’impatto con la nuova categoria non mi destabilizzò, anzi, grazie al sostegno dell’allenatore Marcello Chiricallo vincemmo il campionato a marcia spedita. Quando ricevetti il mio primo assegno di cento euro, mia madre ne fu talmente orgogliosa che lo fece incorniciare!

Dopodiché, però, il primo ostacolo da superare. Ti viene diagnosticato uno strano disturbo fisico che ti costringe ai box per un po’ di tempo. Come ne sei uscito?

Con la volontà e la spensieratezza di uno spregiudicato adolescente. Sapevo che avrei avuto un’altra occasione. La Beretti dell’As Andria Bat era un’opportunità da cogliere al volo con ottime prestazione o, chissà, con l’ennesimo rigore respinto. Detto, fatto. Esordio contro l’Avellino, undici metri durante i quali il rigorista deve aver pensato di tutto, mi buttai e deviai la palla in calcio d’angolo, tra il boato degli ultras.

Il 26 marzo 2006, la Gazzetta dello Sport titola “Mancino, dalla curva in panca”. Che è successo?

Il primo portiere dell’Andria, nonché mio mentore, Di Bitonto, si infortunò, così il mister, Rosario Foti, decise che fosse arrivato il mio momento, era ora di buttarmi nella mischia. Senonché…

Senonché?

Avevo promesso ai miei amici che avremmo seguito insieme la partita in Curva, non prima però di farci un cicchetto. Arrivato allo stadio a cinque minuti dal fischio iniziale, mi resi conto che lo speaker chiamava a gran voce il mio nome. Mister Foti voleva che mi riscaldassi, gli altoparlanti provarono a farmelo sapere, ma io proprio non ci sentivo. Sapete, quando si è piccoli, non è facile essere professionisti al 100%, le tentazioni sono tante, e fui costretto a starmene in panchina, seduto tra parastinchi, bottigliette d’acqua e molti rimpianti.

L’apice lo raggiungi nella stagione 2006/07 ad Ischia Isola Verde. Come descriveresti questa esperienza?

Unica ed irripetibile. La Serie D era molto competitiva ma il nostro coach, Franco Impagliazzo, riuscì ad allestire una squadra all’altezza. Nello spogliatoio avevamo, scherzosamente, ribattezzato il mister con il soprannome di Taratà, a dimostrazione di quanto sereno fosse il clima, di quanto unito fosse quel gruppo a cui mi lega, tuttora, una piacevolissima amicizia. Mi dispiacque molto dover fare le valigie, specie dopo aver collezionato 34 presenze su 34 giornate, ed essere stato eletto “miglior portiere del Girone H”. La stagione 2007/08 l’avrei disputata al Francavilla Insinni, ci rimasi fino a Natale, poi la voglia di casa ebbe il sopravvento.

Torni ad Andria. Ad aspettarti c’è l’allenatore Nicola Di Leo. Quanto devi alla tua Città?

Tanto, forse tutto. L’unico rammarico è aver pagato dazio alla sfortuna. La stagione 2008/09 fu, praticamente, l’ultima da sport agonistico. La pubalgia incombeva e il troppo girovagare mi aveva disilluso. Certo, ci avevo messo del mio ma credo di non aver ricevuto il giusto supporto degli addetti ai lavori. Il calcio non è tutto rosa e fuori, certe spine possono pungerti fino a farti sanguinare. Se mai avrò la fortuna di essere padre, consiglierò a mio figlio di perseguire i sogni con costanza e sacrificio. Sarà poi la fatalità degli eventi ad indirizzarti in un senso piuttosto che in un altro. Ecco, fare il portiere mi ha insegnato esattamente questo, a restare concentrati, ad assumerti la responsabilità di essere l’ultima speranza che divide la tua squadra da un gol subìto, a fortificare il carattere per schivare tutti i colpi di un destino che è lì, pronto a scagliare all’angolino un tiro sinistro, anzi, un tiro… Mancino!


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.