«Allor disse ’l maestro: “Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga”»
(Inferno, XXIV, vv.22-24)
Anche questo canto è suddiviso in due sezioni: più breve la prima, che ancora si diffonde sui seminatori di discordie già presentati nel canto precedente; più estesa la seconda, dedicata alla decima bolgia dell’ottavo cerchio, nella quale sono puniti i falsari.
Tra i seminatori di discordie, Dante incontra Geri del Bello, suo lontano parente, tanto che il poeta è commosso fino alle lacrime e Virgilio non gli risparmia un piccato rimbrotto. Dante prova a giustificarsi, ma Virgilio è perentorio: non si curi della sorte dei dannati e pensi ad affrettare il suo cammino. Peraltro, il tema della vendetta, sollevato proprio a proposito di Geri, non è tale da attenuare lo sdegno del Maestro.
Giunti alla decima e ultima bolgia, possiamo finalmente conoscere la pena a cui sono sottoposti i falsari. I primi che scorgiamo sono gli alchimisti, rei di aver falsificato i metalli. Ora, per contrappasso, sono colpiti da scabbia e altri mali che li ricoprono di croste; levano un puzzo raccapricciante, quale non si sentirebbe neppure se si assembrassero tutti i malati di malaria della Valdichiana o se si ripetesse la peste che, secondo il mito, sterminò gli abitanti dell’isola di Egina, prima che venisse ripopolata dalle formiche.
Seguono gli incontri con Griffolino d’Arezzo e Capocchio. Griffolino narra di essere morto per una beffa malriuscita: aveva scommesso di saper volare e Albero da Siena, prediletto del vescovo, lo fece per questo condannare al rogo. Dal canto suo, Capocchio, con pungente sarcasmo, stigmatizza la vanità dei Senesi e si diffonde in un elenco di personaggi noti per la loro prodigalità: Stricca dei Salimbeni, suo fratello Niccolò e i dodici componenti della cosiddetta «brigata spendereccia», tra i quali Caccianemico degli Scialenghi e Bartolomeo dei Folcacchieri (detto l’Abbagliato).
È al rimprovero di Virgilio che, però, intendo ritornare per una breve riflessione da condividere come sempre con te, caro lettore, adorata lettrice:
«Allor disse ’l maestro: “Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga”»
(Inferno, XXIV, vv.22-24)
In parafrasi: Allora il maestro sentenziò: «D’ora in poi, il tuo pensiero non stia a tormentarsi per lui (per Geri). Ad altro dedica la tua attenzione e lascia che egli rimanga là dove si trova (a scontare la sua pena)».
Modi rudi, già si diceva, quelli di Virgilio, almeno in apparenza, atteso che si parla pur sempre di un congiunto di Dante la cui morte violenta è rimasta invendicata.
Ma è proprio questo il punto: il non poter o dover soffermarsi sul male compiuto, sul male subito, sul male che, ipoteticamente, si vorrebbe compiere per rivalersi di quanto ingiustamente patito. In altre parole: il non poter indugiare sul male che genera male, che provoca male oltre il male.
La logica della rivalsa, che può apparire persino ragionevole ai nostri occhi, è categoricamente rifiutata da Virgilio che, a noi e non solo a Dante, sembra ripetere: “Guarda oltre e pensa ad altro. Lascia il male che genera male. Ti attende il Bene, perché indugi, perché ti volgi e ti rivolgi? Rimuginare sul male non ti porterà alla felicità. Rimuginare sul male è il male! È male che genera male”.
O almeno, così a me pare…
Leonardo da Vinci: «Chi scalza il muro, quello gli cade addosso».
Paracelso: «È la dose che fa il veleno».
E Martin Luther King: «La più grande debolezza della violenza è l’essere una spirale discendente che dà vita proprio alle cose che cerca di distruggere. Invece di diminuire il male, lo moltiplica».