«Perch’io parti’ così giunte persone, 
partito porto il mio cerebro, lasso!, 
dal suo principio ch’è in questo troncone. 
Così s’osserva in me lo contrapasso»

(Inferno XVIII, vv.139.142)


Il canto ventottesimo ci porta nello spettacolo della nona bolgia dell’ottavo cerchio, laddove scontano il loro contrappasso i seminatori di discordie i quali, se in vita avevano diviso i legami più stretti, in morte si vedono mutilati delle loro stesse membra.

Lo spettacolo è quanto mai macabro, tanto che Dante deve ancora una volta confessare la sua incapacità di narrarci il mistero del male. Ce n’è per tutti i (cattivi) gusti: teste tagliate, mani mozzate, interiora squartate. Quest’ultimo castigo è riservato a Maometto, qui punito in quanto origine di uno “scima” che tale in verità non è, in quanto la religione islamica non è di certo una “porzione separata” del cristianesimo originario.

La pena di Maometto, ancora oggi, non cessa di far discutere quanti accusano Dante di cattolicissima faziosità. Sinceramente, la questione non mi appassiona. Mi pare chiaro che Dante, per quanto uomo libero e spesso controcorrente, è figlio del suo tempo e come tale va letto. Sbagliano, a mio modesto avviso, sia quanti lo difendono a spada tratta, sia quanti vedono in lui una arabofobia che mi sembra molto più attuale ai tempi nostri che ai suoi: basterebbe informarsi da fonti terze (difficili, ma non impossibili da trovare) su come viene raccontato, ancora oggi, il conflitto israelo-palestinese per convincersi che la paura dell’Islam è più un fattore utile alla moderna politica occidentale, sempre così comprensiva quando deve giustificare i propri obbrobri, sempre così inesorabile quando va a caccia di terroristi di comodo per la propria propaganda. E qui mi taccio. Intelligenti pauca.

Maometto non è, peraltro, l’unico protagonista del canto. Dante narra di aver incrociato un numero di mutilati ben superiore a quello provocato da tutte le guerre che hanno infiammato l’Italia meridionale e racconta di molteplici incontri. Il primo avviene con Pier da Medicina, che prima spiega la pena di Curione e poi profetizza l’assassinio di Guido del Cassero e Angiolello da Carignano per mano di Malatestino di Rimini. Seguono ancora gli incontri con Mosca dei Lamberti e Bertram del Bornio, reo di aver seminato discordia tra padre e figlio – rispettivamente Enrico II ed Enrico III, re d’Inghilterra – e ora condannato a portare in giro la propria testa amputata, afferrandola per i capelli quasi fosse una lanterna:

«Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrapasso»

(Inferno XVIII, vv.139.142).

In parafrasi: Per aver io diviso persone così congiunte, ora porto il mio cervello (me misero!) separato dal midollo spinale che è in questo troncone. Così è ben visibile in me il contrappasso».

E qui, caro lettore, adorata lettrice, ti lascio con un principio di riflessione… Provo a riassumerla così: chi divide è diviso, chi divide si divide, chi divide ha la testa separata dal collo. Se così non fosse, se “avesse testa”, comprenderebbe che “divide et impera” (“dividi e comanda”) sarà pure un antico adagio, magari allettante e raffinato, ma rimane un inganno. Non si vince facile seminando dis-cordia. Non si vince affatto seminando divisione dei cuori. Per credere il contrario, si deve per forza essere dei “senza testa”. Intelligenti pauca: e due.

Ralph Wald Emerson: «La ragione per cui il mondo manca di unità e giace a pezzi e a mucchi è che l’uomo manca di unità con se stesso».

Proverbio cinese: «Una famiglia unita è sempre più numerosa di una famiglia divisa».

Hermann Hesse: «…sentire l’unità e per così dire respirarla».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...