L’alfabeto di Dante

Nel precedente Alfabeto dedicato al concetto di giustizia, abbiamo letto l’iscrizione che campeggia sulla porta dell’inferno. A causa del loro «colore oscuro» (Inf. III, 10) quelle parole avevano da subito catturato l’attenzione del pellegrino e, con lui, del lettore:

«Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».  (Inf. III, 1-9)

L’inferno si caratterizza per il dolore: è la «città dolente» abitata da «l’etterno dolore» dei dannati. Ma anche qui a regnare è la giustizia del Dio Trinità, richiamato dalla «divina potestate» (il Padre), la somma sapienza (il Figlio) e il «primo amore» (lo Spirito). L’inferno non sembra dunque il regno voluto da Dio per punire chi non lo ha riconosciuto o creduto, ma piuttosto la conseguenza dell’uso sbagliato di quella libertà che è «il maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando» (Par. V, 22) l’uomo.

L’inferno è nell’anima oscura di chi si chiude alla luce della verità. È sulla terra quando l’uomo mette al primo posto i suoi interessi e calpesta prepotentemente l’altro, fino a privarlo del diritto inalienabile della vita. Il «doloroso ospizio» (Inf. V, 16) getta la sua ombra sugli uomini quando gli asili o gli istituti per anziani, da luoghi di cura e tenerezza, divengono altrettanti «dolorosi ospizi», recinti di violenza dove uomini ormai divenuti bestie calpestano il corpo e la mente dei più bisognosi. L’inferno è nel cuore di chi non prova pietà per il prossimo e negli occhi di chi è prigioniero dell’avarizia, al pari del protagonista di “Canto di Natale” di Dickens, al quale nessuno si rivolgeva «per dirgli con viso affettuoso: “Caro Scrooge, come sta? Quando verrà a trovarmi?”. Nessun mendicante lo pregava di elargirgli qualcosa, nessun ragazzo gli domandava l’ora, nessun uomo, nessuna donna, in tutta la sua vita, gli si era mai rivolto per chiedergli la strada per questo o quell’altro posto». Quello uscito dalla penna di Dante, dunque, è la rappresentazione dell’inferno terreno proiettato nell’eternità.

Dante, però, non si limita a rappresentare il male; nella sua «alta fantasia» (Purg. XVII, 25) concepisce e descrive anche il Paradiso, che è il regno dell’amore. C’è una corrispondenza tra la porta buia dell’inferno e la vergine Maria, la porta da cui sorse la luce per il mondo – «porta ex qua mundo lux est orta» canta l’antifona Ave regina coelorum). Tale corrispondenza è data dal ritorno delle parole-rima fattore, amore e fiore al posto di «dolore»:

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore 
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.

Nel paradiso, regno della gioia, non c’è spazio per il dolore. Quell’«umana natura» nell’inferno così brutalmente trasfigurata e degradata, nel cielo è nobilitata dalla “libera obbedienza” di Maria. Un paradosso questa “libera obbedienza”? E’ Dante stesso che all’altezza del Purgatorio, parlando della libertà, ribadisce che nella vita morale l’uomo procede secondo un’innata disposizione al bene, e in tal senso è a Dio sottomesso pur rimanendo interiormente libero: «A maggior forza e miglior natura / liberi soggiacete…» (Purg. XVI, v. 80). L’uomo è dunque libero di accettare la sua dipendenza da Dio; e se questa dipendenza diventa obbedienza e deriva dalla libertà, allora vuol dire che essa nasce dall’amore. Scrive Agostino: «Non abusare della libertà per abbondonarti al peccato, ma usala per non peccare. La tua volontà sarà libera se sarà buona». Maria, allora, col suo libero e generoso «sì» permette al «fattore» eterno di farsi sua «fattura», carne dell’uomo, nobilitando così tutto il genere umano.

Nel grembo della Vergine si «raccese l’amore». Nella poesia di Dante è sempre l’amore a muovere le azioni di Dio. Dopo essersi acceso nella Creazione, questo amore fu come spento dal peccato di Adamo. Ora in Maria si riaccende, perché lì crebbe il Salvatore, che come un fiore germina a segnare l’inizio della redenzione. Attraversando la porta dell’inferno ogni speranza doveva essere abbondonata: «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate»; Maria, con la sua divina maternità, spalanca all’uomo la possibilità di un mondo nuovo: «se’ di speranza fontana vivace» (Par. XXXIII, 12).

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