20 Marzo 2020. Noi studenti stranieri in America siamo lasciati allo sbando. Tornatevene a casa ci hanno detto da un giorno all’altro. Succede anche a noi Italiani.
Eravamo diciotto nel master in giornalismo politico alla Columbia University. Chi si trovava nei dormitori è stato sfrattato. Uno dopo l’altro i miei colleghi sono partiti. Chi per l’Inghilterra, chi per la Corea del Sud, chi per la Repubblica Ceca. Famiglie e amori li reclamavano. Siamo rimasti una manciata.
Il conflitto è forte: parto o non parto? Rimango. Forse no. Ma l’Italia è in quarantena. Mamma chiede che torni, ma se vado perdo il visto. Ero arrivato in America per un salto di carriera, e se esco dal paese probabilmente non potrò più rientrare. Cosa succederà se rimango? Mi cureranno? Il sistema sanitario Americano fa paura. Ma noi studenti siamo fortunati perché abbiamo l’assicurazione sanitaria. Per strada c’è un senzatetto a terra raggomitolato per proteggersi dal freddo. Per il paese ce ne un altro mezzo milione. Se prenderanno il virus, cosa succederà a loro? Cerco di rompere il tiro alla fune tra panico e angoscia. Non ho diritto di sbilanciarmi in nessuna delle due direzioni. Sono un privilegiato.
Muriel, mia collega cilena, mi scrive “viviamo questo viaggio con profonda incertezza. Di solito sappiamo quello che succede, questa volta invece è tutto sconosciuto. Può succedere qualsiasi cosa. E noi siamo i prescelti a lasciare un registro di questo tempo.” Mi concedo un po’ di coraggio.
Siedo alla stanza 607B dove facevamo lezione. Guardo le nuvole dalla finestra del sesto piano della palazzina Pulitzer, e vedo grigio. Il dolore, nel vuoto di questa scuola, è incolmabile. La porta della stanza è aperta, lasciata così quasi nella speranza che arrivi qualcuno. Ma è invece un canale di silenzio che risucchia le grida delle ambulanze su Broadaway. Scrivo dalla scrivania dove fino a qualche giorno fa sedevano i professori. Davanti a me una schiera di sedie vuote. Il profumo del caffè di mezzanotte per studiare ha lasciato posto all’odore del gel disinfettante. Ed è come se all’improvviso il martello nella fotografia appesa sulla parete sia volato fuori a romper la nostra bolla. L’urto ci ha paralizzati.
Le lezioni ora sono on-line ma non abbiamo la concentrazione per riuscire a seguirle. Teste parlanti su uno schermo opaco. Rumore. Amitoj, mio compagno indiano è solo a casa. Si è mollato con la ragazza che è a Nuova Deli, dove lui non può tornare. Depresso esponenzialmente. Cerchiamo di tirarlo su a chiamate. Brent che ha pagato la retta intera (67.000 dollari) è disperato per il mutuo da pagare. Il mercato del lavoro chiude proprio quando stiamo per entrarci. I tirocini, le offerte di lavoro, tutti persi nel fumo della catastrofe.
Siamo in un limbo. Il mondo si ferma, ma gli affitti no. Viviamo in buchi di dieci metri quadri dove se si è fortunati c’è una finestra. Corridoi claustrofobici, bagni dove il lavabo è grande quanto un’insalatiera. Paghiamo fortune per dormirci dentro. E per di più abbiamo coinquilini. Io sono sfortunato con il mio. Nonostante la ragione e la scienza ci dicano di star lontani gli uni dagli altri, ogni sera porta una nuova donna a casa. Lui da notizie di morte da virus la mattina sul divano, ma non fa niente per evitarla. La vede come una festa, e non è l’unico. Anche se non siamo soli, siamo soli.
Quindi, quasi in un ultimo slancio di speranza, fino a quando non saremo forzatamente chiusi in quarantena, veniamo alla palazzina Pulitzer, a pochi isolati da casa. Veniamo nella speranza di incontrare qualcuno, per diluire il veleno della separazione netta. Nel disperato bisogno di compagnia. Perché quando sei lontano da casa, i tuoi colleghi diventano famiglia. E se vanno via anche loro, o non puoi più vederli, il morale affonda.
L’università continua a inviare email aziendali scusandosi dell’inconveniente senza precedenti. Ci manda anche numeri di psicologi e psichiatri, da chiamare al telefono, ovviamente. Ma quello che manca è l’umanità, un senso di comunità perso. E mentre l’America ha paura e nega, vorremmo un leader che ci dica che andrà tutto bene. Anche se non è vero. Il conforto delle parole è spesso un abbraccio che calma.
Dalla finestra del sesto piano vedo studenti trascinarsi dietro dei carrelli blu pieni di scatoloni. Le ruote sbattono sul pavé. Il suono rimbomba nel contenitore di plastica e schizza sui muri del campus. Genitori aspettano impazienti alla macchina con tutte le porte aperte. Andiamo via. E andandosene ingoiano l’amaro della cerimonia di laurea che non ci sarà. Sembra che diventeremo giornalisti via Zoom, con una videochiamate. Altro che discorso emozionale, cappelli in aria, e una solida, meritata, ubriacatura. Viviamo a New York ma non ce la godevamo. Ci sarebbe stato tempo a primavera. Sogniamo una sbronza da quando abbiamo iniziato. Regin, collega delle isole Faer Oer, continua a dirmi che il 20 Maggio, giorno della laurea, ci ubriachiamo lo stesso. Sì, via Skype.
Scendo per le scale. Il suono elettrico delle luci ai piani taglia i timpani. A pianoterra entra un controllore in uniforme, cappello, e guanti neri. Cammina lentamente, come un pendolo, sbilanciandosi a destra e sinistra. Si avvicina al muro, e accanto alla placca “per educare la prossima generazione di giornalisti” alza il telefono a per le chiamate interne. Non digita nessun numero, ascolta. Cosa? Gli uffici dei professori sono dolorosamente vuoti. Cammino piano, e anche se i miei passi fanno rumore, il controllore non ci fa caso. È stregato dal suono muto del telefono. Sono un fantasma? Mi sento un intruso nelle stanze che sono state rifugio.
Fuori, a sentinella, c’è l’albero a guardia della palazzina Pulitzer. A novembre le foglie infiammate di rosso dicevano che dopo l’inverno sarebbe tornato il sole. Ora è spoglio, bagnato dalla pioggia, ma alle sue estremità una miriade di gonfiori violacei sono pronti ad esplodere. Anche se la nostra vita si è fermata e l’università è terminata di colpo, la nuova stagione è qui. Un manipolo di uccellini canta in barba al tempo. Il formicaio di studenti che corrono a lezione è un ricordo lontano. Si sente solo cinguettio nella piazza della Columbia University. E forse, per ora, è meglio così.
Agostino, brother, even with google translate, the beauty of your writing shines through! There will be a time after when the world moves back beyond Skype and Zoom, hopefully, with a new sense of purpose and a better sense of direction and understanding of cooperation. Stay safe until that time! Ciao!