Avvolta nei panni neri, l’aveva trovata più piccola di quanto se l’era immaginata. Stava leggera e inerte sotto una coltre lattea ageminata a fili d’argento, fissata per sempre nel pallore terreo della morte.
Sotto le grandi volte di tufo imbiancate a calce, alitava un soffio vitale di cioccolata calda profumata di garofano e cannella che saliva da un grande samovar di alluminio appoggiato sul tavolaccio di legno grezzo accanto ai tazzoni di terraglia smaltati di bianco e a un vassoio di cartone nel quale giacevano, allineati e morbidi, i raffioli.
Si trattenne soltanto il tempo di cedere alla lusinga di inzuppare un raffiolo nella tazza sbreccata colma di confortante e densa cioccolata mentre tesseva la necroapologia della defunta con un conoscente. Poi, irruppero le nenie funebri delle comari più strette impeciate in lunghi scialli tenebrosi. Allora, si decise ad uscire.
Ci aveva riflettuto parecchio dopo la visita ai parenti in quella fredda mattina di gennaio nella quale il cielo di zinco spandeva un gelido silenzio e una pioggia immobile e malinconica.
Per quella che gli sembrò una pensata geniale, si recò nella pasticceria che lo serviva abitualmente, la migliore della città.
C’è il principale? Devo ordinare una torta per 20 persone – annunciò con tono perentorio entrando impettito nella pasticceria odorosa di vaniglia e di caffè.
Il garzone s’affrettò nel retrobottega nel momento in cui dal forno sbuffavano i vapori del pandispagna.
Pringpè stè mest Alfonz che voul urdnè nu gattò.
Il principale, levatosi la toque blanche, s’affacciò dietro il bancone con una giubba immacolata chiusa da bottoni d’oro e un grembiule decorato al lavoro con croci di cioccolato fuso e ripiegato nella fettuccia che gli cingeva i fianchi.
Come la facciamo? Al cioccolato, alla panna, ricoperta di pasta di mandorle e ghiaccia reale?- suggerì riconoscendo il cliente.
Non lo so, non ne ho la più pallida idea. Fai tu, mi fido. – disse, dimostrando la confidenza di una lunga frequentazione. Passo più tardi con il bigliettino e l’indirizzo dove la consegnerete. E andò via.
Il pasticciere rientrò nel laboratorio, si risistemò le couvre-chef, scelse, fresco di forno, un fondo di pandispagna circolare d’una quarantina di centimetri di diametro e lo divise perfettamente ricavandone due dischi che sembravano soli d’oro sul firmamento grigio gainsboro venato di verde e di blu del marmo di lavorazione. Sulla carta di pizzo che copriva il cartone circolare per sorreggere la torta, posò il disco di pandispagna. Aprì l’armadio delle bagne e optò per un fromentino rum agricole della Martinica che asperse come una benedizione sacramentale sul fondo della torta. Con la spatola spalmò un primo strato di crema pasticcera liscia e fulgente d’un delicato giallo chartreuse. Sminuzzò il cioccolato fondente in pezzetti croccanti e li unì alla gianduia che costituì il secondo strato di crema. Chiuse la torta con l’altro disco di pandispagna pareggiandolo con quello inferiore per ottenere un cerchio assolutamente preciso. Stese un velo sottilissimo di crema al burro aromatizzata di crema di cacao e si preparò alla decorazione.
Temperò sul marmo il cioccolato con il quale ricoprì la torta d’una lucida copertura di scurissimo color tennè.
Inserì nel sac à poche un beccuccio con un finissimo foro a stella francese e con la crema di burro disegnò una graziosa greca sulla bordura. Poi, prese un foglio di carta oleata e ne ricavò un cornetto che riempì di ghiaccia reale per guarnire la superficie della torta.
Fu allora che gli sovvenne di non aver chiesto quale circostanza il gâteau avrebbe contribuito ad allietare. Aveva un frasario completo per compleanni, onomastici, anniversari, lauree, battesimi, cresime, comunioni, nozze d’argento e d’oro e, perfino, per Natale e Pasqua. Fece un paio di giri intorno al marmo tenendo fisso lo sguardo sulla torta e, infine, si risolse per un generico “Auguri” che scrisse in bello stile e che contornò con delle violette di pastigliaccio.
“È pronta?“- chiese imperioso mest Alfonz rivolgendosi al ragazzotto che dietro al bancone era intento a schierare in ordine nei vassoi d’acciaio i bignè, le diplomatiche e i cannoli toscani.
Il principale, sentendone la voce, apparve subitaneamente sostenendo la torta con le due mani.
“Eccola” – disse sorridente e orgoglioso del proprio lavoro.
Il silenzio di tomba durato l’eternità di un secondo bastò a tratteggiare la sorpresa e la perplessità sui volti di entrambi.
“Auguri!” esclamò mest Alfonz sgranando gli occhi.
“Non sapevo per quale avvenimento servisse!” – si giustificò il principale.
“Ià nu cunz. È per un lutto” – incalzò mest Alfonz.
“Un lutto!” – balbettò incredulo il principale e per un attimo fu tentato di scaraventare la torta in faccia al cliente. Ma mantenne la freddezza per ricomporsi.
“Vedi, – si difese il cliente – stamattina dal morto hanno portato i caffè e i cornetti alla crema e poi la cioccolata calda con i raffioli. E so che in questo momento, stanno servendo il brodo con le polpettine di carne. Allora ho pensato alla torta”.
Il pasticciere prima che mest Alfonz terminasse era già in laboratorio. Rimosse con tutta la cautela possibile la scritta beneaugurante e le violette e, sull’inevitabile guasto, vi adagiò un fascio di crisantemi giallo zafferano modellati con la pasta di mandorla.