Ho un vincolo di riconoscenza verso Gegè Mangano per la lezione di vita che seppe impartirmi una sera nel suo locale, Li Jalantuùmene, così intitolato nel vivido ricordo d’un circolo di Monte Sant’Angelo frequentato, nella prima metà del secolo scorso, da avvocati, medici, proprietari terrieri, faccendieri e massari. I braccianti, quando vi passavano davanti, non potevano neppure alzare lo sguardo ed erano passibili di severe corvée se vi sbirciavano attraverso i vetri.
A me Monte Sant’Angelo riporta alla memoria i pellegrini transumanti che attraversavano la città a piedi nudi verso ‘Monde’ per le celebrazioni in onore dell’Arcangelo Michele e, cosa che eccitava la mia fantasia di ragazzo, le piume colorate che svettavano pennacchiose sulle antenne delle autoradio a tutto volume di improbabili miniminor arancione, lanciafulvia amarillis, prinz scarlatte guidate da baldi giovinotti con i calzoni a vita bassa, sgambati a zampa d’elefante.
Più in là mi sarei innamorato perdutamente del santuario micaelico – TERRIBILIS EST LOCUS ISTE. HIC DOMUS DEI EST ET PORTA COELI – ancestrale, solenne e perenne come l’alabastrina statua dell’Arcangelo attribuita al Sansovino.
Ecco come andarono i fatti.
Ad accogliermi sulla soglia del ristorante appare Gegè Mangano con il suo faccione rosato, bonario e ilare, dietro il quale si nasconde la sensibilità finissima d’una sincera, rara e signorile latitudo cordis.
Gegè Mangano
Gegè è così: cordiale, magnanimo, profondo, appassionato.
Mi riconosce e, dopo un affabile saluto, gli viene spontaneo confrontarsi sulle esperienze e sugli interpreti della cucina di qualità in Puglia.
– Chi o che cosa hai visitato di interessante negli ultimi tempi? – mi chiede facendomi accomodare al tavolo.
– Sabina Legatello*- rispondo in maniera perentoria.
– Sabina Legatello, sì è vero. Anch’io l’ho trovata molto interessante – replica immediatamente.
– Sai – provo a motivare -, lei proviene da una importante esperienza internazionale, New York, Shangai …, ha saputo innestare tecniche innovative sulla nostra tradizione utilizzando i nostri migliori prodotti. Insomma è riuscita a creare preparazioni inedite pur ispirandosi alla storia locale.
Mentre parlo, versa in un panciuto calice di cristallo un Kebir (etichetta torreventana), che sprigiona nell’aria tutta la sua forza di rosso di razza, e scompare di soppiatto e lemme lemme in cucina.
Il Kebir rivela la complessità dei due vitigni da cui è ricavato. La nobile tannicità del Nero di Troia e la calda armonia del Cabernet Sauvignon. Nell’attesa di Gegè, mi godo l’amarena e i frutti rossi, le note tostate e il pepe, il cioccolato vanigliato – è il legno che prorompe smussando e domando tannini -, del vino e medito sulla concezione manganiana di chef.
Fare lo chef – si legge sul website del ristorante – insegna a non avere paura del buio a non vergognarsi quando si sbaglia, a non esaltarsi quando tutto va bene. Aiuta a ricordare che senza la terra non ci sarebbe il volo.
Sul grazioso balconcino che dall’interno del locale si affaccia nella piazzetta, prendono posto una ragazza e un ragazzo. Gli occhi, i loro, scintillano d’amore. A servire la coppia s’affretta con garbo una deliziosa signora bruna.
Ninni, moglie di Gegè Mangano
È Ninni, moglie di Gegè, la cui delicatezza d’animo è pari alla grazia dei tratti.
Gegè rientra con un piatto che poggia sulla tovaglia di elegantissimo cotone ricamato a pizzo davanti a me.
– Che cos’è? – chiedo, prima di cedere alle lusinghe della gola.
– È u’ piatt’ du banchier – risponde sorridendomi.
– U’ banchier – riprende – era un ricco possidente montanaro (così sono detti gli abitanti di Monte Sant’Angelo, ndr) che prestava soldi.
– A usura! – incalzo.
– Prestava soldi – e rincantuccia la testa nelle spalle, allargando le braccia.
– Dunque, u’ banchier – continua – possedeva un’infinità di terre che controllava direttamente. E, da vero padrone, controllava direttamente anche i braccianti. Era dura la vita, allora.
– Sì, ma che cosa c’entra questo con il piatto? – domando con crescente curiosità.
– Abbi pazienza e saprai! – dice con bonomia.
– Nel pieno della canicola o nel gelidi pomeriggi d’inverno – riattacca –, arrivava sui campi con il suo bel calesse. A vederlo i contadini finalmente rialzavano la testa dopo essere stati curvi per ore a mietere spighe o a raccogliere olive sotto l’occhio implacabile dei caporali. Scendeva dallo sciaraballo e da padrone si mutava in prodigo padrepadrone.”V’ho portato l’uovo” – gridava. “Chi vi porta l’uovo? Assalout u banchier ve’ port l’uov!”. I braccianti, le donne, i bambini, agitando coppole e fazzolettoni, esplodevano in un fragoroso “Viva u’ banchier!”. Si poteva mangiare! In una padella di ferro stagnato sfrigolava un olio esausto nel quale venivano immerse fette di pane toccate da un nulla di uovo sbattutissimo. In un pentolone bollivano cicorie o sivoni o marasciuoli. Sul pane fritto s’adagiavano le verdure, imbiancate, quando la prodigalità diventava munificenza, da una spolverata di formaggio. Questo è il piatto del banchiere.
La moderna interpretazione del piatto del banchiere: Rosette fogliari di papavero selvatico su crostone di pane e tuorlo d’uovo scottato
– Un piatto che fa parte della tradizione montanara! – assevero categoricamente.
– Un piatto che ho appreso stando in coda alla posta – precisa Gegè.
– Che cosa vuoi dire? Spiegami.
– Ecco, vedi, di tanto in tanto vado alla Posta e mi metto in fila. Magari non devo effettuare operazioni, ma mi piace ascoltare la gente, in particolar modo gli anziani. Un giorno, mi trovavo dietro una vecchietta e così, per ingannare l’attesa, le chiesi cosa avrebbe preparato quel giorno a pranzo. U’ piatt’ du banchier, rispose, e mi raccontò tutta la storia. Non sono mai stato a Shangai. Le ricette le imparo alla Posta.
E questo è tutto.
* l’identità della/o chef è criptata