«Quando la sera si perde nelle fontane, il mio paese è di colore smarrito»

(Pier Paolo Pasolini)

Può essere che una madre maledica la nascita di un figlio? Diverrebbe un fatto molto negativo e che potrebbe innescare negatività di una certa rilevanza qualora nell’aggettivare il caso si mettesse proprio una madre infelice, magari disturbata nella psiche o, ancora peggio, dal “soggetto” che lei stessa ha messo al mondo?

L’occasione che ha dato spunto a una storia del genere sembra sia riferita ad una poesia di Baudelaire in cui una madre di un poeta maledice la nascita del proprio figlio. Figlio maledetto appunto.

Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, definiti “poeti maledetti”, ne presero questo appellativo e lo adoperarono per dare il titolo ad una loro rivista “Le Décadent”.

Prima di “cadere”  in un momento disarmonico, è meglio darsi una mossa e rivedersi, passarsi al setaccio mentale, le priorità che, per diversi motivi si erano accantonate nell’uggioso ripostiglio della memoria: a macerare nell’indifferenza di una “piatta” uniformità. Una forma di lassismo, generato dalla monotonia di un pendolo che, nel suo andirivieni, dondola la pigrizia che sprofonda in una sonnolenza ancestrale.

A questo punto non resta che prendere un buon libro di ottimo argomento per scuotersi l’abulia. Questo per innescare il desiderio di esserci, prima di scomparire, facendo ecclissare del tutto, la parte rimanente di un “Io” ancora in torpore?

Si sale o ci si arrampica solo laddove i punti di camminamento denotano salite o verticali. In ogni caso mettiamoci sempre la nostra “faccia”, scevra da aspetti negativi e che trasmetti quel tanto di fiducia che è sempre un buon biglietto da visita. Così, almeno, il tempo speso risulterà giovevole.

Gli impegni ci portano via del “tempo prezioso”? Ma almeno viene utilizzato producendo e rendendosi scopo: esito nel quale si configura l’intenzione o meglio l’azione di fare, di agire, di attivare le proprie risorse positivamente.

Scorre veloce il tempo ed è, per l’umano, più sopportabile nel gesto piuttosto che nell’oziare.

Il giorno scorre veloce, incontro alla sera…

Si nota dall’imbrunire, dalle prime, improvvise ombre che offuscano, velano momentaneamente le speranze di luce naturale: solo rimandate alla nuova aurora.

“Forse perché della fatal quïete/tu sei l’immago a me sì cara vieni/o Sera!” (Ugo Foscolo)

È pausa e sollievo, la sera.

Intermezzo, dov’essa si concede un maquillage fatto di voci, suoni, e profondi respiri, sotto il luminio discreto delle stelle e del riflesso lunare che ne segnano, se pur sfumati e indefiniti, i contorni.

“Alla Sera”. Quale eccelsa, spirituale figura emerge da questi versi del Foscolo! Tutto ad indicare uno stato d’animo, apparentemente decadente ma che attinge nutriente psicologico nel quale il Poeta si immerge e nuota la sua solitudine in una galassia di pensieri inespressi e di altri, a lui negati.

Un rigurgito di lemmi trabocca dalle pagine ingiallite dall’antologia  e rende la mia lettura sì piacevole che non si bada più al cadenzare del pendolo che si appresta a forare la notte.

E i pensieri volano fin tra le stelle e con esse si confondono in un baluginare di speranze che sembravano assopite mentre arriva la notte, vibrando le sue voci…

E il Cosmo pulsa come un cuor giovanile, nell’atto gareggiante a superarsi, ad avvicinar distanze immani per racchiuderle nello spazio di un abbraccio tenero, umano.

Pure il Dolore si “ravvede”. Esso si lenisce da sé gli strascichi della “tragedia umana”, mentre ammira il cielo stellato. Tragedia intrinseca all’homo sapiens il quale, già dalla notte dei tempi, si porta in carico, al pari di una bisaccia da viandante, il cumulo di ideali e di speranze, verso una meta sempre meno agognata: la fine. “Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme/che vanno al nulla eterno; e intanto fugge/questo reo tempo, e van con lui le torme/delle cure onde meco egli si strugge…” (Ugo Foscolo).

Il più delle volte si biasima chi soffre e non chi lo fa soffrire. È da ricercare in questo la sensibilità dei grandi pensatori, male intesa dai più.

È solo da masochista crogiolarsi nel dolore. Quello di Foscolo ha avuto due momenti cruciali in cui gli si erano aperte ferite, mai più rimarginate. Questi due momenti di stato d’animo li esplicita nelle sue due bellissime opere: “I Sepolcri e le Grazie”.

Il suo carattere si era formato immaginando un mondo fatto di consonanze e di accordi ma che solo aveva trovato nella struttura cosmica e giammai nell’uomo, per cui lo aveva definito: “il mortale”.

Era stato definito collerico Foscolo per le brusche reazioni che lo animavano ogniqualvolta gli toccavano corde sensibili. Era lui, come letterato, a sentirne le sollecitazioni quando provenivano da voci diafane e contraddittorie e a reagire in modo tale da farlo sembrare una persona poco incline alla socievolezza.

Una persona mite e ragionevole dal punto di vista umano, il Foscolo. Solo che si portava appresso una serie di risentimenti i quali gli avevano creato un “ruggito dentro” che, nei momenti imprevedibili, essi ruggivano alle ignoranze e alle ingiustizie che l’uomo perpetrava sul suo simile.

La Sera è presa a soggetto da diversi poeti, quasi nessuno escluso. Ognuno di essi ne parla con la propria consapevolezza: coscienza esasperata o distesa, sensuale o pudica, secondo di chi sia la poetica espressa.

D’Annunzio, Pascoli, Montale, Ungaretti, Quasimodo, Pier Paolo Pasolini, Deledda, Merini e tanti altri ancora, tra le stelle di un “firmamento” aulico, di stile e di decadentismo: misterioso, spirituale e artistico, senza confini.

“Ognuno sta solo sul cuor della Terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”

(Salvatore Quasimodo)


FonteFoto di sandeep gill su Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.