Il Craxi di Hammamet non può concedersi punti di criticità

La città tunisina di Hammamet è la prosecuzione idealistica di un’Italia che, apparentemente, non c’è più. “T’anna scurdà!” ripete il politico Renato Carpentieri ad un irriconoscibile Pierfrancesco Favino. Uno dei pochi ospiti a varcare la soglia della dimora Craxi, stamberga e bugigattolo di malaffari.  Già, “mal“, prefisso che un impenitente bambino si vede affibbiato all’inizio e alla fine di questo lungometraggio firmato da Gianni Amelio.

Inizio e fine, dicevamo, alfa e omega di un uomo a tutto tondo, un’anima tormentata desiderosa di raccontare al suo Paese il suo rimorso, la sua paura, l’angoscia kierkegaardiana  di un’esistenza gambizzata ed in cancrena, un rene, organo vitale da consegnare ai posteri con quel cuore che questo film rivaluta, ripulendo un’immagine dissacrata e lapidata dal giudizio spicciolo di contribuenti spiccioli, monetine di chi tiene, giustamente, al proprio futuro più che all’effimera numismatica.

“Hammamet“ corre lento, coccolato dalle musiche di Nicola Piovani, attinge dalla sceneggiatura dello stesso Amelio e di Alberto Taraglio per produrre, attraverso Agostino e Maria Grazia Saccà, un biopic di alto livello, celato dietro nomi fittizi e narrato seguendo metafore e allegorie, è l’anacronistica epopea garibaldina che individua nella figlia di Bettino, Stefania, quell’Anita grillo parlante che guidò con coscienza la rappresaglia dei Mille, una liberazione autoproclamatasi esilio, il redde rationem di alternative mancate e mancanti, il tertium non datur di un epilogo annunciato, stella caduta nel dimenticatoio di italiani che non intendono ricordare, se non da turisti di un incubo, quel brutto sogno che Craxi racconta come ultimo testamento, quasi da benefattore nei confronti dell’erede di Vincenzo Balzamo, ragazzo depresso e costretto al ghetto di una clinica psichiatrica.

La fotografia di Luca Ujkaj consegna al pubblico un’isola lontana diroccata, il sindaco ad un occhio di un ambiente cieco, militarizzato e servile. Rai e Minerva Pictures regalano alle nuove generazioni un libro di storia da studiare, specioso nello scopo, sublime nell’impiattamento, la proibita razione di pasta fra il magna magna generale. Ecco, appunto, il generale, gioco di ruolo che Bettino intrattiene con suo nipote, unica foglia bonificata di un albero genealogico i cui rami secchi portano, erroneamente, i nomi e le rassegnate ambizioni di Bobo e Stefania.

Il regista non stacca mai la macchina da presa dal suo protagonista, tallona il suo  “cattivo“ facendo da imbonitore alle sue fragilità, empatia sottaciuta dagli allori del Partito Socialista fino all’ascesa di un Berlusconi telegenico e preoccupato dalla questione serba di Milosevic.

Il Craxi di Hammamet non può concedersi punti di criticità, le rotture non sono contemplate, è la sintomatica finzione di un riposo annunciato, l’amante Claudia Gerini da rispedire al mittente come una lettera di dimissioni da se stesso, dal proprio solipsismo, dall’amara convinzione che sia meglio un intelligente tradimento che una stupida lealtà.

 


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.