Nell’uscita di questa settimana Odysseo ha non pochi articoli dedicati alla Pasqua, intesa come festa cristiana per eccellenza. Non è mia intenzione scriverne un altro. Non, almeno, in senso stretto.
Vorrei, piuttosto, proporre una riflessione a mezza voce. Per esempio, sul senso degli auguri che ci scambiano in questi giorni: Buona Pasqua! – Buona Pasquetta! – Auguri di pace! – Tanti Auguri!
Ok, per la Pasquetta è abbastanza facile: ci basterebbe che fosse bel tempo per una felice gita fuori porta, in campagna o in collina, magari persino al mare.
Ma cosa ci servirebbe, veramente, perché la Pasqua fosse “buona”? Una bella mangiata in famiglia, salvo poi accusare disturbi nella digestione? Una serata al cinema o in discoteca? Una rimpatriata di vecchi amici? E poi?
Magari non vogliamo confessarlo neppure a noi stessi, o soprattutto a noi stessi, ma è proprio quando arrivano le “feste comandate” che rischiamo di accusare un senso di disagio: perché si può “comandare una festa”, ma non la felicità. La pienezza, quel senso che ci appaga e ci pervade, non arriva “a comando”.
Occorre altro. Ne abbiamo già scritto. Occorre essere “in pace” con noi stessi.
Occorre leggerezza, direzione, motivazioni. Una volta si chiamavano scala dei valori, priorità, senso della vita, a prescindere da qualsivoglia credo religioso.
Ora, chissà come si chiamano. Forse, non si chiamano proprio più. Sono questioni démodé.
Tuttavia, fuori moda non vuol dire inautentico. E le domande inevase restano. Urlate forte in silenzio, inascoltate, ma non meno urgenti. Restano.
Allora: auguri di Buona Pasqua e anche di Buona Pasquetta. Che sia davvero l’occasione di un bel pranzo di famiglia, di un incontro con amici ritrovati o di una bella scampagnata.
Che possa essere, però, anche l’occasione favorevole per un incontro con noi stessi.