26 minuti… BOOM! Primo, secondo, terzo giorno… BOOM! Ogni 26 minuti, … BOOM!
Non stiamo parlando di bombe atomiche artificiali, ma di bombe umane, di colpi che un “maschio” lancia verso la “propria” donna…
Questi i dati statistici che ritmano la cadenza con cui si consuma un abuso ai danni di una donna. Nel mondo, ogni 26 minuti, una donna è martoriata da un uomo, spesso sino al femminicidio. In Italia, c’è un femminicidio ogni tre giorni: sono numeri agghiaccianti!
Eccone altri: la violenza domestica è la prima causa di morte nelle donne tra i 16 e i 44 anni, in Italia vi sono 14 milioni di casi annui di abuso femminile, in Europa 63 milioni, ma il dato che più rende perplessi è che solo una donna su tre denuncia la violenza subita!
Nella vita quotidiana, se commettiamo azioni retrograde o parliamo in maniera un po’ retriva, è facile subire critiche del tipo: “Ma come parli?! Ma cosa fai!? Siamo nel terzo millennio: aggiornati!”
Eppure, forse neppure l’uomo di Neanderthal avrebbe osato maltrattare le donne così come accade, ancora, nel terzo millennio. Molti si chiedono come mai in passato tali situazioni non si verificassero. Non è vero che non accadessero. È che si preferiva tacere, “mettere una pietra sopra”, “buttare acqua sul fuoco”, “lavare in casa i panni sporchi”, perché, anche se si fosse venuto a sapere della violenza, la stessa società (maschilista) non avrebbe dato peso alle denunce, ma avviato il processo alle intenzioni della donna. Come del resto si fa, troppo spesso, ancora oggi.
Eppure qualcosa è cambiato. Qualcosa sta ancora cambiando. La donna ha, almeno sulla carta (prima neanche questo…) gli stessi diritti dell’uomo, ecco perché è necessario che ella stessa impari a denunciare l’abuso subito. Non bisogna scalare montagne per farlo, basta un cellulare su cui comporre un semplice numero a quattro cifre: il 1522. Vi risponderà una donna, una professionista, pronta a darvi gratuitamente il suo aiuto e a liberarvi dal mostro che vi è affianco, anche se può assumere il volto di un marito, di un fidanzato o di un ex, di un padre o di un fratello.
Scriviamo questo sapendo che non bastano un articolo, un documentario, uno spettacolo, un film o cortometraggio, una nuova carta dei diritti o la miglior legge possibile a fermare la volenza. Eppure, continuare a scriverne, a parlarne, a creare iniziative, è un buon metodo per aiutare la gente a capire che cosa è veramente questa epidemia, un buon metodo per aiutare le stesse donne a trovare un po’ di coraggio e delle persone di cui potersi fidare e a cui potersi affidare.
A proposito di iniziative, l’ultima in tempo cronologico, nella città di Andria è StopViolence, promossa da una ragazza di soli diciotto anni, Francescoriana Guglielmi, che con la sua macchina fotografica ha voluto immortalare delle modelle, truccate come se fossero state oltraggiate. Il risultato di questo lavoro è stato esposto in una galleria fotografia all’interno Liceo Classico “C. Troya”.
Ecco le sue dichiarazioni per Odysseo.

Da cosa nasce questa iniziativa?
Un giorno, una mia professoressa mi stava raccontando una delle ultime vicende di violenza di cui aveva sentito parlare e aggiunse “ricordate che chi vi ama non vi fa del male!”. Quella frase mi segnò e per qualche minuto provai a mettermi nei panni di tutte quelle donne che quotidianamente vengono violentate. Da lì la questione iniziò ad interessarmi sempre più, mi documentai, lessi di statistiche a dir poco raccapriccianti e molteplici testimonianze. Uno degli elementi in comune che ho riscontrato in tutti i racconti è la paura di denunciare. Gran parte delle vittime, attende giorni, mesi e addirittura anni prima di denunciare, prima di salvarsi. Perciò mi sono detta che io in qualche modo avrei dovuto invitare, quante subiscono violenze di ogni genere, a “sputare” ciò che avevano dentro. Non avevo grandi mezzi a mia disposizione, ma sicuramente il migliore che io potessi usare era la mia passione: la fotografia. Così ho coinvolto sedici mie amiche e le ho proposto di vestire i panni di tutte quelle donne violentate. Ho coinvolto anche truccatrici professioniste del settore, facendo simulare graffi, lividi e qualsiasi segno di violenza. E con la mia macchina fotografica mi sono messa all’opera. E un po’ per gioco, ma molto più per una giusta causa, è nata la mia iniziativa: StopViolence.

Qual è il messaggio che vuoi far risuonare?
Il messaggio forte e chiaro che voglio far arrivare a chiunque subisce maltrattamenti di ogni genere è quello di DENUNCIARE. Capisco che sia difficile, ma bisogna raccogliere tanta forza e farlo per se stesse e anche per tutte le persone che giorno dopo giorno percepiscono la loro sofferenza.

La storia che più ti ha segnato?
Il lavoro più duro penso sia stato quello della ricerca delle testimonianze, ho cercato in lungo e in largo, su libri, giornali e nel web. Ciascuna storia, a modo suo, mi è sembrata particolare e unica, ma forse quella che mi ha colpita maggiormente è quella di Katia e Serena. Si parla di due ragazze compagne di scuola; Serena da un po’ di giorni si assentava da scuola e Katia iniziò a preoccuparsi, poiché non rispondeva neanche al cellulare, quindi decise di farle visita presso la sua abitazione. Non avrebbe mai potuto immaginare lo scempio che di lì a poco si sarebbe mostrato ai suoi occhi: Serena era sul letto, abbandonata a se stessa con chiari segni di violenza. Non riuscì subito a voltarsi. Quando lo fece, Katia individuò la figura del papà di Serena, il quale era completamente diverso dal padre gentile ed apprensivo che Katia aveva sempre conosciuto. L’uomo, senza avere pietà neanche della compagna di sua figlia, osò abusare anche di lei…

Parole che ci lasciano … senza parole. A voi, invece, lasciamo le immagini di Francescoriana

Foto 1

«Ogni giorno ricevevo sberle, schiaffi, spintoni, minacce. Ancora oggi mi domando come sia potuta rimanere con quell’uomo quattro anni e mezzo e come possa averci fatto due figli. Naturalmente non ho mai raccontato a nessuno tutto ciò perché ero dominata dalla vergogna. E in più c’era la voglia di apparire come una bella famiglia!»

foto 2

«Ormai ci avevo fatto l’abitudine, per me era cosi non c’erano alternative. Io non esistevo più, esisteva solo lui».

foto 3

«Ero al quinto mese di gravidanza. Eravamo a letto quando, mi accusò di avere un altro uomo, si avventò su di me, per consumare un rapporto mentre mi ricopriva di insulti. Ero terrorizzata, con quella brutalità avrebbe potuto finire per far del male anche a sua figlia, la bimba che portavo in grembo, cercavo in tutti i modi di proteggere la pancia girandomi nel letto e supplicando di smettere. Ma non si fermava, allora scappai fuori di casa. Faceva freddissimo, quella notte: lui mi inseguì e raggiungendomi, mi afferrò per la sottile maglietta che indossavo, che si strappò, rimasi seminuda, in strada. Intanto lui continuava a darmi pugni sul capo e sui reni. Ma io continuavo a correre, scalza, sfuggivo da quell’orrore ma lui riusciva a prendermi, e continuava a picchiarmi»

foto 4

«Lui beveva, era un alcolizzato. Mi violentava. Mi picchiava per ogni piccolezza, per ogni errore. Ogni volta era uguale. Mi lavavo un sacco di volte al giorno, perché mi sentivo sporca. Ma usavo i guanti, quelli da cucina, per non sentire il contatto con la mia pelle. Ho tentato anche di andar via, di fuggire da quell’incubo, ma riusciva a fermarmi. Non mi lasciava neanche prendere l’autobus per andare e tornare dal lavoro, perché era disdicevole che mi vedessero gli altri uomini. Aveva assoldato una sua persona di fiducia che mi facesse da scorta. Non ho mai raccontato a nessuno quello che succedeva. Mi dicevano che i propri ‘panni sporchi’ vanno lavati in casa, non all’esterno. E mi portavo tutto dentro».

foto 5

«Erano un po’ di giorni che Serena non veniva a scuola, e cominciavo a preoccuparmi», racconta Katia «Non mi rispondeva al telefono e nemmeno ai messaggi che invano le inviavo chiedendole magari di aiutarmi con i compiti di latino. All’angoscia per la drammatica situazione che vivevo in famiglia, si era aggiunta la paura di aver perso la persona che più di tutte mi aveva spinto a lottare in un periodo buio. Decisi quindi di farle visita. Se non mi rispondeva al telefono, si sarebbe stancata almeno di sentir suonare il citofono. Dopo quasi un’ora di attesa, il cancello si aprì, ma di lei nessuna traccia. Mi addentrai tra i corridoi di una casa che conoscevo quasi meglio della mia, ma la scena che trovai ad attendermi, fu a dir poco raccapricciante. Serena era distesa sul suo letto, mezza nuda con gli occhi gonfi dal pianto» continua Katia «Mi avvicinai a lei ma quando finalmente trovai il coraggio di chiederle cosa fosse accaduto vidi i suoi occhi sgranarsi e nello sguardo lessi il panico scaturito dalla consapevolezza di qualcosa che di li a poco sarebbe accaduto. Una mano rude, pesante mi tappò la bocca, mentre l’altra con un gesto deciso mi scaraventò sul pavimento. Feci per girarmi e lo riconobbi: era il padre di Serena. Quell’uomo dolce e gentile che per mesi ci aveva accompagnato a scuola sembrava diverso, quasi indemoniato. Facile immaginare cosa accadde dopo. Iniziò a spogliarmi, a toccarmi, a ripetermi che dovevo essere punita per chissà quale assurdo motivo, e poi senza che né io né Serena riuscissimo a fermarlo, abusò di me». #‎STOPVIOLENCE‬

 


[ Foto:Francescoriana Guglielmi ]