Il periodo liturgico dell’Avvento, ritmato dalle letture bibliche che si susseguono nelle quattro domeniche, più che una immediata preparazione al Natale, si presenta come “la celebrazione del nostro tempo”, in cui emerge da un lato l’essere umano in ricerca e dall’altro la celebrazione di un Dio in movimento verso l’essere umano in quell’arco di tempo costituito dalla storia; l’invito quindi è soprattutto a “vigilare”, quale tipico atteggiamento globale della persona attenta agli eventi della storia, affinché la storia diventi lo spazio in cui la fraternità si manifesta come servizio, e la “vigilanza” come attivo esercizio del proprio compito e delle proprie responsabilità.
All’interno di questo tempo liturgico si muovono dei maestri di vita: i profeti con un richiamo al deserto quale luogo della memoria e della proposta.
Il deserto, nel corso dell’Esodo (viaggio dall’Egitto alla terra promessa del popolo ebraico), è il luogo della prova, del passaggio; è presentato anche come luogo della non vita. Qui, nel deserto, un gruppo di “sbandati”, fuoriusciti dall’Egitto, ha maturato la comprensione che da solo può far ben poco: per vivere deve imparare ad apprezzare gli altri… così quel gruppo si è trasformato in un popolo con un’anima, con delle regole e soprattutto con delle attenzioni premurose.
Il deserto è, dunque, luogo dove maturano le grandi decisioni, dove si sono formati i profeti prima di dare avvio alla loro missione. Due sono stati, infatti, i luoghi-simbolo scelti dai profeti per la loro azione: Gerusalemme, centro religioso e politico del popolo di Israele dove portare un messaggio di riforma, e appunto il deserto, luogo dove ritrovare un cammino di rinnovamento, luogo ideale dove compiere quel viaggio interiore di riappropriazione di se stessi e della propria storia, ma anche luogo di fuga e di contestazione, a volte, contro la stessa Gerusalemme.
Il deserto diventa così una proposta del tempo dell’Avvento. È interessante notare come il termine ebraico che indica “deserto” (midbar) contenga anche quello che indica “parola” (dabar); e il dabar non è una semplice emissione di suoni o di semplice idee, ma è evento. Occorre quindi “vigilare” far silenzio attorno, mettere a tacere voci inutili, arrestare la dispersione mentale, meditare, riflettere: altrimenti le giornate, i mesi, gli anni, la vita passano nel vuoto.
È, insomma, nel deserto che vengono poste le basi di una cultura sociale nuova che ha come norma nei rapporti reciproci “la compassione”. Il tecnicismo esasperato, l’autosufficienza, una economia di rendita non frutto del proprio sudore possono portare a non “ricordare”, all’affossamento della memoria storica…. quindi l’appello e l’invito a tornare al deserto … su cui costruire la propria esistenza e la propria credibilità: non è la soddisfazione del proprio ruolo gerarchico a far esistere, ma quel processo di conversione che porta a calzare i sandali della fraternità …anche se crocifissa.
Elia Ercolino
[Foto: www.umanesimocristiano.org ]