antisemitismo

Antisemitismo o antisionismo? Il 17 gennaio scorso c’è stata la visita di Papa Francesco alla sinagoga di Roma. È stata la terza volta di un papa cattolico nel luogo di culto ebraico. Pur essendo un incontro pensato e preparato ai fini di un redditizio dialogo interreligioso, non si è persa l’occasione, data la visibilità mondiale fornita dall’evento, di provare a farne un uso politico.

Nello specifico se ne è fatta carico Ruth Dureghello, la presidente della Comunità Ebraica Romana, una dei tre relatori che hanno parlato al cospetto di Bergoglio. Nel suo discorso la donna si è prodotta in quello che può essere considerato ormai un classico del repertorio della classe dirigente ebraica: il doppio avvitamento logico.

Funziona così:

  1. nel primo avvitamento si accostano le azioni di resistenza violenta dei palestinesi a quelle del terrorismo islamico in generale (quindici anni fa l’assimilazione fu con Al Qaeda, oggi con l’Isis);
  2. nel secondo si accosta “antisionismo” ad “antisemitismo”, dicendo che si tratta della stessa cosa, così da aver gioco facile nell’accusare di razzismo chiunque critichi qualche aspetto di Israele.

E allora, ha spiegato la Dureghello: «Molti si chiedono se il terrorismo islamico colpirà mai Roma. Signori, Roma è già stata colpita. Un solo nome: Stefano Gaj Taché, due anni, 9 ottobre 1982, ucciso da un commando di terroristi palestinesi». E ancora: «Tutti noi dobbiamo dire al terrorismo di fermarsi. Non solo al terrorismo di Madrid, di Londra, di Bruxelles e di Parigi, ma anche a quello che colpisce ormai tutti i giorni Israele. Il terrorismo non ha mai giustificazione». Infine: «Riaffermo con forza che l’antisionismo è la forma più moderna di antisemitismo».

Quelli in campo sono concetti abbastanza lineari e i distinguo di cui stiamo per trattare, per la maggior parte delle persone, sono assodati. Tuttavia, vista l’interessata superficialità di certa intellighenzia ebraica, ci tocca star qui a ribadirli.

  1. Gli atti violenti dei militanti dell’Isis sono mirati a un’applicazione radicale dei precetti del Corano e all’instaurazione di un Califfato con cui sottomettere il mondo intero; gli atti violenti dei palestinesi sono mirati a un rigetto dell’occupazione militare israeliana e alla fine della colonizzazione illegale del suolo dello Stato di Palestina. Nei territori palestinesi al momento l’Isis non esiste. Quelle persone vogliono solo ciò che l’Onu ha sancito che spettasse loro. Ecco che le azioni violente dello Stato Islamico non hanno giustificazione alcuna perché puntano alla sottomissione, quelle dei palestinesi possono averlo perché puntano alla liberazione. Ci si può trovare ad esempio la stessa giustificazione che avevano gli atti terroristici dei nostri partigiani, i quali festeggiamo ogni 25 aprile. Nonché quelli dell’Organizzazione Combattente Ebraica attiva nel ghetto di Varsavia, alla cui memoria è dedicata tutta una sezione dello Yad Vashem (Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, ndr).
  2. “Semita” è una parola che, pur connotando in origine un ceppo linguistico (anche gli arabi sono semiti), ha finito per indicare persone di fede e di stirpe ebraica. Essere “antisemiti” allora, per chiunque sano di mente, non può avere senso. Perché vuol dire essere contro qualcuno, non per una sua colpa, ma solo per il fatto di essere nato in una certa maniera. “Sionista” invece è un termine che indica un progetto politico. Il Sionismo, teorizzato a fine ‘800 da Theodor Herzl, mirava all’istituzione di uno Stato ebraico. Interpretando in maniera radicale quest’idea (come fanno i partiti adesso al governo), i sionisti di oggi vorrebbero che lo Stato d’Israele avesse una conclamata connotazione razziale, e che i territori amministrati legittimamente dai palestinesi diventassero anch’essi Israele. Gli “antisionisti” sono quelli che si oppongono a queste idee, e non si capisce dove sia lo scandalo nel farlo. Si può essere tranquillamente ebrei senza essere sionisti, e ce ne sono tanti, come si può essere cattolici ed essere contro le crociate. Non c’è contraddizione perché si tratta di due ambiti diversi.

Fin qui ho provato a spiegarlo a parole mie, tuttavia capisco che possano non bastare o risultare poco autorevoli. Si potrebbe provare allora con quelle di qualche giornalista ebreo, Amira Hass, Gideon Levy o, per restare in Italia, Gad Lerner: «Quando i coloni che occupano illegalmente terre palestinesi vengono esaltati come gli eredi legittimi dei pionieri dei kibbutz del secolo scorso […] allora è l’intera destra israeliana, ormai saldamente egemone nel paese, che deve guardarsi allo specchio».

Oppure potrebbero aiutare le parole di un altro ebro italiano, Moni Ovadia, attore, scrittore, intellettuale: «La critica da parte di un ebreo della diaspora alla politica di governi israeliani può essere considerata tradimento, antisemitismo od odio verso se stessi solo se collocata nel quadro di un’identificazione nazionalista di ebreo, israeliano, popolo ebraico, popolo d’Israele, Stato d’Israele, suo governo e “terra promessa”. Ma se qualcuno osa fare notare, da posizioni critiche, tale pericolosa identificazione, ecco arrivare addosso all’incauto le accuse infamanti di antisemita o antisionista, che, per molti “amici di Israele” – anche persone d’indiscutibile livello culturale –, sono la stessa cosa».

Se ancora non è chiaro, bisogna ricorrere alle parole di Primo Levi. Scrittore, ebreo, scampato ai campi di sterminio, negli anni ’80 disse: «Quello che non perdono ai nazisti è di averci fatto diventare come loro».

Se non ci si fida di scrittori e giornalisti, si dovrebbe ascoltare gli storici: Ilan Pappé, ebreo: «L’antisionismo non ha nulla che vedere con l’antisemitismo, ma con l’anticolonialismo. […] E se gli intellettuali non vogliono utilizzare i termini giusti per descrivere la realtà, non possiamo stupirci che non lo facciano i media e neppure i politici».

Se ancora non è sufficiente, ci tocca scomodare i giganti. Da un lato, Nelson Mandela, per il quale «sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza quella dei palestinesi» e «la Palestina è la questione morale del nostro tempo»; dall’altro, Albert Einstein e Hannah Arendt, scienziato e filosofa, entrambi ebrei.

Nel 1948, in occasione di un viaggio negli USA di Begin, il fondatore della formazione politica sionista “Partito della Libertà”, sottoscrissero una lettera in cui si leggeva: «Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo Stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut), un partito politico che nella organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. […] L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli USA è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservativi americani».

Così dovrebbe essere chiaro.


1 COMMENTO

  1. Nessuna persona dotata di buon senso può esprimere aprioristicamente opinioni contro lo stato di Israele, ma può, anzi deve, stigmatizzare la sua politica imperialistica e militaristica nei confronti dei Palestinesi. La sua avanzata nel territorio palestinese, con gli out-points e le colonie, prosegue inarrestabile, nonostante alcune di esse siano destinate a rimanere disabitate, come è successo ad una delle colonie intorno a Betlemme, dove squallide costruzioni vuote fanno “bella mostra di sé”. Verificare per credere!

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