Ancora un libro su Auschwitz? È la prima domanda che potrebbe sorgere, quando si prende in mano il saggio di G. Pulina, Auschwitz e la filosofia (Diogene Multimedia, Bologna 2015, pp.172, €12,00). Sì, ancora un libro su Auschwitz, perché, come scrive l’Autore, ogni discorso su Auschwitz si presenta, immancabilmente, come «[…] un esame sulla solidità della memoria, paragonabile ad un congegno sofisticato il cui corretto funzionamento è esposto all’influenza di molteplici fattori» (p. 149).

È misurandosi con tale problematicità che Pulina indaga Auschwitz secondo differenti chiavi di lettura: ponendosi, in primo luogo, la domanda se il lager sorto nei pressi di Oswiecim debba essere considerato “un corpo estraneo” (p.147) al normale corso della storia; quindi, affrontando la questione su chi, tra filosofia, arte e teologia, debba detenere la “titolarità su Auschwitz” (p. 148-149); infine interrogandosi sulla possibilità/necessità di “insegnare Auschwitz” (p.150), a dispetto della labilità della memoria e dei negazionismi risorgenti.

Il testo di Pulina, accurato quanto un saggio scientifico, leggibile quanto un testo che si può dare in mano a dei ragazzi, si cimenta con tali interrogativi attraverso un triplice approccio riflesso nelle tre parti del saggio medesimo.

Nella la prima sezione, più sistematica, Pulina, avvalendosi dell’apporto dei più noti pensatori che su Auschwitz hanno già scritto, espone in termini teoretici la domanda sulla necessità e impossibilità di qualificare Auschwitz in una qualsivoglia casella del pensiero e dell’agire umano: dalla memoria negata alla futurabilità e obsolescenza di Auschwitz; dal suo essere immemorabile alla sua imprescrittibilità, alla necessità di perdonare; dall’impossibilità di parlarne all’ineluttabile compito di scriverne per resistere e ricordare; alla problematica lettura dell’antisemitismo di Heidegger.

Nella seconda sezione, Pulina opera una curiosa e insolita operazione: porta dei filosofi nel lager di Auschwitz e li mette alla prova. Interroga il Candido di Voltaire e la teodicea di Leibniz, il “ritrarsi di Dio” di Jonas e la banalità del male della Arendt o, per meglio dire, del nazista Eichmann, fino a prendere in esame le più recenti assunzioni del sociologo Zygmunt Bauman.

Infine, la terza parte, la più breve, propone una disamina dell’antisemitismo in dieci libri, rispettivamente a firma di Karl Marx, Bernard Lazare, Theodor Lessing, Sigmund Freud, Jean Paul Sartre, Hannah Arendt, Theodor Adorno, Leon Poliakov, Tzvetan Todorov, Furio Jesi. L’elenco di tali e tanti autori non spaventi il lettore: le recensioni delle rispettive opere che Pulina propone sono agili e di immediata lettura.

In ultima analisi, un testo che si presenta come una sorta di “breve summa” su quanto per Auschwitz e attorno ad Auschwitz è stato detto e pensato.

Se si volesse indicare non diciamo una lacuna, ma un ulteriore campo di indagine su cosa Auschwitz significhi per noi contemporanei, ci chiederemmo: ma come Auschwitz è oggi pensata e insegnata alle nuove generazioni di studenti e soldati ebrei? È forse possibile che la memoria di Auschwitz, in qualche modo tradita e con un’incredibile rovesciamento della storia, sia oggi la “magna charta” del nazionalismo sionista e della sua politica antisemita a danno dei rifugiati palestinesi e dei loro Territori Occupati?

Questa ipotetica domanda non trova campo in Auschwitz e la filosofia, ma non è detto che l’Autore non voglia prenderla in esame per le sue future ricerche.