“Ora non sarà più consentito alla Storia di smarrire l’altra metà della Memoria.

I nostri deportati, infoibati, fucilati, annegati o lasciati morire di stenti e malattie

nei campi di concentramento jugoslavi, non sono più morti di serie B”

(Annamaria Muiesan)

 

Alzi la mano lo studente che, sui banchi di scuola, negli ultimi 70 anni, ha studiato questa storia.

Alzi la mano chi conosce esattamente il perché del “Giorno del ricordo”.

Allora proviamo a raccontarli, questi spicchi di storia, ritagli di una memoria scomoda.

Armistizio dell’8 settembre 1943: si scatena l’offensiva contro nazisti e fascisti. Vengono colpiti, sommariamente, tutti gli italiani sospettati di aver collaborato con il regime di Mussolini.

Maggio del 1945: il massacro.

Per forzare gli italiani a fuggire dai territori istriani, dalmati e della Venezia Giulia, migliaia e migliaia di innocenti vengono infoibati. Non si hanno numeri certi. Sono non meno di 5.000. Forse, addirittura 15.000.

Era finita la Seconda guerra mondiale, l’Italia tutta veniva liberata dall’occupazione nazista: a Trieste e nell’Istria scoppiava la tragedia, il genocidio.

Un particolare: se a liberare il resto dell’Italia era stato l’esercito anglo-americano, a liberare l’Istria, sino ad allora territorio italiano, era l’esercito comunista jugoslavo, guidato dal maresciallo Tito.

“Liberare”? In realtà, durante i “quaranta giorni del terrore”, a Trieste, le truppe partigiane e comuniste di Tito furono libere di torturare, uccidere, deportare.

Indiscriminatamente.

E di nascondere l’orrore nelle foibe.

Già, ma cos’è, di preciso, una foiba? Si tratta di cavità carsiche, a forma di imbuto, larghe anche 20m e profonde 100 o più: servirono da inghiottitoio delle vittime della pulizia etnica messa in atto dalle truppe titine.

La “tecnica” utilizzata lascia smarriti: schiere di uomini e donne legate, mani e piedi, con filo di ferro, un colpo di pistola al primo della fila che, cadendo nella voragine, trascinava giù, col suo peso, tutti gli altri. Corpi su corpi, membra su membra. I primi, morti per l’impatto o per soffocamento, schiacciati dal peso degli altri che franavano loro addosso e che potevano sopravvivere anche per diversi giorni. Prima che sopraggiungesse la morte. Di inedia.

Un orrore.

Dimenticato per decenni, rimosso dalla coscienza nazionale, cancellato dai libri di storia, contestato ancora oggi.

Ma non è tutto.

Il 10 febbraio 1947, con il Trattato di Parigi, l’Italia cedeva definitivamente l’Istria alla Jugoslavia e 350.000 esuli istriani, fiumani e dalmati dovettero abbandonare la loro terra, i loro beni, i loro ricordi. Ammassandoli nel Magazzino 18.

Giunti sulla Penisola, furono insultati, vilipesi, respinti. A un treno di esuli diretto da Venezia a La Spezia fu impedita la sosta nella stazione di Bologna: c’era necessità di rifornirsi, ma tutto il personale ferroviario minacciò uno sciopero nel caso in cui si fossero concessi acqua e cibo ai “fascisti istriani”.

Ancora. L’Italia dovette attendere il 1954 per ottenere finalmente il controllo di Trieste, mentre ogni pretesa italiana sull’Istria fu definitivamente sepolta con il Trattato di Osimo, nel 1975. Una cessione senza contropartita, di un territorio che era stato “Italia” sin dai tempi dell’Impero Romano…

Un’altra pagina di storia, non certo gloriosa, che la nostra Repubblica ha rimosso e sulla quale tesi giustificazioniste e negazionismo storico l’hanno fatta da padrone.

Ecco, la legge del 30 marzo 2004, n. 92, recita: «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...