Io sono Abdelaziz, quello del mare che inghiotte, Abdel
in bilico sul bordo della barca, sul bordo
dei sogni, quello del cielo azzurro e della notte
che avanza strisciando, della barca che si rovescia nel buio
e spalanca l’alfabeto sonoro del terrore.
Abdelaziz del freddo che assorbe, della imperscrutabilità dei pesci,
dell’acqua che diventa uno scintillio di voci, di grida,
fanfara dolorosa di destini senza più nome.
Abdelaziz che ha conosciuto il privilegio di una mano che l’afferra,
l’ha scaraventato nell’inchiostro del cielo, su su, ha volato
come un uccello senz’ali, Abdel che tremava nell’aria,
che ha sentito la terra, è caduto, ha visto in faccia
quell’uomo, si è specchiato nella sintassi di rughe,
nella fronte da contadino, Io Abdelaziz, da Wajid, Io
Giuseppe, ha detto soltanto, vengo da Copertino.
Abdelaziz in piedi sulla barca. Gli è stato rivelato
che morire non è solo un’ipotesi, una parentesi chiusa,
un’equazione, una faccenda trascurabile.
Abdelaziz che ha volato nell’aria, le stelle affacciate.
Abdelaziz che Giuseppe l’afferra col braccio da contadino,
Giuseppe di poche parole, sparito nel buio.
Io sono Abdelaziz, quello della barca, del mare che inghiotte.
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