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Mostrarsi visibili ed essere ininterrottamente “collegati” al mondo “assicura” una illusoria certezza e l’ingannevole idea di “notorietà” ritenuta essenziale per uscire dall’anonimato e dalla tanto temuta solitudine.
La convinzione di essere un volto riconosciuto, la percezione di autostima che ne deriva e la dipendenza dai social network non fanno altro che accrescere frustrazione, insoddisfazione, delusione e illusione, ma la paura di essere “fatti fuori” da un qualsiasi gruppo è più forte della propria individuale integrità.
Non importa essere leali ed autentici. Importa solo essere succubi di un sistema. Un sistema che apparentemente lega a se milioni di persone, ma che in realtà slega ognuno di noi dal suo inventarsi e dal suo crearsi ogni giorno, insomma, pare sia non normale sentirsi e stare soli.
Ma dove sono “tutti gli amici” quando si esprime il proprio stato di apparente serenità, di bisogno? Come si può manifestare il proprio malessere se nessuno guarda negli occhi e chiede: “Come stai?”
Gli occhi sono lo specchio dell’anima e solo attraverso il suo riflesso nell’incontro meraviglioso dello sguardo altrui si potrebbe uscire dalla falsità e dall’ipocrisia con cui ognuno si nasconde in un essere qualcun altro.
La “rete” funziona per questo, perché ci si nasconde dietro fotografie o smile che disegnano l’icona di una vita estremamente attiva e felice.
Ormai è diventata un’impellente necessità fisica e mentale quella di “sbattere” ogni istante della propria quotidianità sui social: bisogna senza limiti far vedere agli altri la felicità della nostra vita e del nostro avere, quasi come se si volesse generare invidia.
Ci si rende così conto di quanto realmente sia difficile al giorno d’oggi riflettere la propria concreta identità nello specchio della verità. Sono tutti specchi deformati quelli in cui intravediamo la nostra immagine. Se avessimo uno specchio purificato, il corpo non avrebbe bisogno di apparire, gli occhi non avrebbero bisogno di impaurirsi di fronte al buio dell’inquietudine, la mente non avrebbe il bisogno di mentire e la bocca non avrebbe bisogno di tacere.
In questo nostro mondo sembra quasi che visibilità ed esistenza siano sinonimi, ma questo accade solo nel dizionario degli errori.
La solitudine non vuol dire chiudersi nei confronti degli altri e del mondo piuttosto una esigenza indispensabile per prendere maggiore conoscenza di se stessi, per irrobustire spirito e mente, per preparare se stessi, per realizzare se stessi, situazioni che trovano conferma in molti aspetti della vita dell’uomo in cui il distacco è il passo preparatorio ad un cambiamento dell’intera esistenza – nascita e morte,
Nell’era della comunicazione, della multimedialità, dell’interattività e dell’ipermedialità, la solitudine è vista come valore negativo una paura da allontanare, è diventata un lusso tanto da non potersela più permettere di viverla.
La solitudine può aiutare a comprendere cosa si desidera o ci si aspetta dall’altro e allo stesso tempo potrebbe offrire una peculiare visione per meglio considerare rapporti, amicizia, amore; la solitudine non è un’assenza di relazioni e di contatto con il mondo, può essere, anche una risorsa della persona per ritrovare una sua identità e se stesso, anche in una società difficile e complessa come la nostra.
Diverse personalità: attori, filosofi, cantanti, poeti, monaci hanno saputo scorgere la “positività” della solitudine. Giorgio Gaber in un suo testo così canta: “La solitudine non è mica una follia, è indispensabile per star bene in compagnia”.
Altrove si legge: “La sua fama si diffondeva ancor più; folle numerose venivano per ascoltarlo…Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare” (Luca 5,15-16).
La solitudine positiva aiuta a stare bene con se stessi, a ritrovare l’essenza di se stessi e allo stesso tempo ci permette di offrire momenti e rapporti significativi con gli altri.