Avvocato da quasi mezzo secolo, già senatore nelle fila del Partito Comunista Italiano e Sindaco della città di Andria: una serie di credenziali che si qualificano da sé e che ci hanno indotto a cogliere la ghiotta occasione per realizzare un’intervista con Franco Piccolo.
Lei ha un’esperienza tale che la prima domanda è d’obbligo: quali cambiamenti, a suo giudizio, hanno investito la politica e l’ordine forense? Che ne pensa dell’avvocato-politico?
Certamente notevoli sono stati i cambiamenti negli ultimi 50 anni, sia in politica che nella professione forense. Senza voler essere laudator temporis acti, credo di poter dire che la politica di prima era più coerente con il principio dell’art. 49 della Costituzione che individua nei partiti lo strumento attraverso i quali i cittadini, liberamente associandosi “concorrono democraticamente a determinare la politica nazionale”. È sotto gli occhi di tutti la realtà di oggi con partiti svuotati di funzione, spesso senza neppure una sede, senza democrazia interna, che si identificano in un leader (o peggio padrone) piuttosto che in principi e programmi, spesso commissariati dall’alto e che cambiano continuamente aderenti e referenti, con rappresentanti nominati invece che eletti, per cui è azzardato affermare che i cittadini partecipino democraticamente a determinare la politica nazionale.
Anche l’attività forense ha dovuto registrare notevoli mutamenti vuoi per la crescita esponenziale degli addetti, ma anche per le nuove frontiere del diritto, si pensi ai diritti ambientali, alla responsabilità professionale, ai rapporti con la P.A. o ai diritti informatici e della privacy con riflessi anche in materia penale. L’aumento degli addetti e delle tematiche del diritto ha creato anche una enorme crescita di domanda di giustizia in tutti i settori inducendo il legislatore a produrre continuamente nuove norme, spesso in modo alluvionale e disorganico, rendendo più difficile la possibilità di stare dietro a questi continui mutamenti.
Cito, ad esempio, la famosa delegificazione del ministro Calderoli, con la quale si legiferò l’abrogazione di migliaia di leggi salvo poi accorgersi che molte di quelle leggi abrogate dovevano restare ancora in vigore, per cui furono nuovamente riapprovate. In sintesi: aumento del costo, allungamento dei tempi, percorsi della giustizia sempre complicati ed irti di trabocchetti per i difensori e per le parti, decisioni spesso sommarie ed avvocati, specialmente i più giovani, in gran numero frustrati per la enorme responsabilità e la insufficienza del proprio reddito e, forse, sempre più a lungo sostenuti dai genitori.
Quale il politico che, da un punto di vista ideale, ha rappresentato la bussola negli anni della sua militanza nel Partito Comunista Italiano?
Inizialmente per me, come per la maggioranza della mia generazione, il politico di riferimento ideale era Che Guevara. Ricordo ancora quando, nell’ottobre del 1967, con disappunto del sen. Jannuzzi, presi la parola in Consiglio comunale di Andria per commemorare la sua morte. Rappresentava l’ideale di chi combatte ovunque per la libertà e la giustizia. Col tempo il mio politico ideale di riferimento è diventato Berlinguer. Politico non solo onesto e capace, ma tanto gentile quanto fermo nella pacata, ma rigida difesa dei principi e dei valori in cui credeva, vero leader capace di convincere con la sua autorevolezza senza imporre la sua autorità a milioni di aderenti al PCI. La sua tragica morte sul campo ha poi amplificato ancor più il suo carisma.
Oggi le strutture partitiche hanno sempre meno carattere territoriale: quali sono, secondo lei, le maggiori criticità, se esistono, che affliggono la politica 2.0?
Senza più partiti funzionanti o senza sedi territoriali, tesseramenti veri, prevale sempre più il contatto politico virtuale con la TV o tramite internet. Questo però rende il cittadino fruitore passivo senza capacità di renderlo protagonista attraverso il confronto. Con il tempo questo porta a diminuire la capacità critica e quindi la capacità di distinguere il vero dal falso per quanto gli viene riferito. Anche tali fonti di informazione non danno uguale accesso a tutti, privilegiando i detentori di tale potere di accesso. Qualcuno sostiene che questo ci rende più moderni. Può darsi, certo non ci rende più democratici.
Quanto il contesto sociale attuale potrebbe rappresentare terreno fertile per il sorgere di movimenti estremisti?
Se si riducono sempre più gli spazi per la partecipazione democratica dei cittadini alla politica, per quanto detto innanzi, e con le leggi elettorali nuove si impedisce ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti (deputati, senatori, consiglieri provinciali) e poi si alza a dismisura la soglia per consentire l’accesso di forze politiche minori o di nuove formazioni al Parlamento o ai consigli comunali o regionali, si allarga sempre più la platea di coloro che per scelta o per legge non si sentono più rappresentati nelle istituzioni democratiche con il rischio che facciano sentire la propria voce al di fuori delle istituzioni e quindi anche in modo ed estremista.
Gaber diceva: “Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”. Quale il suo ricordo più intimo di quel periodo storico? Cosa è mancato alla sinistra italiana per attuare, fino in fondo, il sacrosanto principio della Giustizia Sociale?
Tante delle motivazioni per le quali una volta si era comunisti – secondo Gaber – sono ugualmente vere e valide. Il mio ricordo più bello di quel periodo è rappresentato dalla tensione ideale, dalla passione che si respirava nelle sezioni del partito. Ricordo quasi con tenerezza i vecchi pensionati che la mattina si ritrovavano seduti in cerchio nella sezione del partito dove chi sapeva leggere, leggeva ad alta voce, per tutti, il giornale l’Unità e gli altri ascoltavano in religioso silenzio, salvo poi ogni tanto fermarsi e discutere di ciò che era stato letto. Anche gli analfabeti (che erano tanti) riuscivano così a leggere il giornale, informarsi e commentare la notizia. Il ricordo più intimo ed indimenticabile di quel periodo è stato il funerale di Enrico Berlinguer nel giugno del 1984 ove ho avuto l’onore di partecipare in rappresentanza della città di Andria, di cui ero sindaco in quel momento. Vedere un milione di persone partecipare con sentito dolore piangere (e addirittura tre persone morire per infarto durante il funerale) la morte di un politico, le masse assiepate sui marciapiedi mugugnare, i canti popolari al passaggio del feretro, segnano un momento sicuramente irripetibile di affetto e rispetto delle masse per un Politico riconosciuto come tale.