C’era una volta la consuetudine di argomentare una bufala o presunta tale con un laconico “l’hanno detto in TV”. Col passare degli anni siamo arrivati ad essere tutti un po’ più diffidenti, quasi desiderosi di una pacca virtuale sulla spalla che ci dia la soddisfazione di sentenziare: “Hai visto? Te l’avevo detto io!”.

In Rete e non, le parole che sottendono un raggiro nascono quasi sempre da termini anglosassoni lievemente modificati. Tre esempi: phishing, clickbaiting, jobs-act.

Del jobs-act sappiamo tutto, ad esempio che i giornali inglesi sono obbligati a tradurlo, dall’inglese all’inglese, nel più corretto «labour reform bill». E anche che Matteo Renzi non riesce a pronunciarlo senza mettere a rischio i suoi incisivi e la pulizia del viso del suo interlocutore.

Del phishing sappiamo che si tratta di un metodo per pescare informazioni riservate, soprattutto codici bancari, attraverso email truffaldine che indirizzano verso siti pirata.

Del clickbaiting sappiamo intanto che non deriva da bite (morso) ma da bait (esca), quindi significa letteralmente «esca per i clic». E che tale esca è costituita da titoli a stampatello, sparati sui social network, che promettono di disvelare notizie esclusive ed emozionanti. Ma molto spesso conducono al regno del nulla.

NON CREDERETE A COSA ABBIAMO SCOPERTO! LEGGETE PRIMA CHE LO CENSURINO!

La fame di traffico generata dai social è ovviamente legata agli introiti pubblicitari e rappresenta una sorta di parcellizzazione del gattino. Esso, il batuffoloso amico, costituisce com’è noto il corrispettivo web del maiale di novecentesca memoria. Non se ne butta via un frame. Così come di molti altri animali. I milioni di video che ci rassicurano, generando senso di superiorità per la goffaggine altrui, senza scatenare sensi di colpa: si tratta di un’altra specie. Si possono deridere impunemente. È un po’ come guardare l’ultima boutade del presidente sampdoriano Ferrero.

Per sfruttare questa miniera di buonumore, alcuni quotidiani hanno addirittura partorito sezioni autonome del sito, colme di filmati nei quali morbidi cagnolini ruzzolano per le scale senza farsi male, torme di soriani colonizzano interi divani, docili pesci rossi eseguono danze tribali pur di ricevere in pasto i loro antenati liofilizzati. Gli esiti sono trionfali. L’utente clicca compulsivamente, immemore del fatto che si era collegato solo per controllare la posta elettronica.

Il clickbaiting utilizza lo stesso impatto emotivo, ma inverte la ricerca dei bassi istinti. Nel primo caso, gli animali sono oggetti di empatia, divertimento, appunto derisione. Nel secondo, che andremo ad analizzare, diventano il soggetto del messaggio. Siamo noi i destinatari di un’indignazione gonfiata da anabolizzanti che sfocia nella rassicurazione dei propri preconcetti: i politici sono ladri, gli zingari rubano i bambini, i vaccini sono un complotto delle multinazionali, le felpe di Matteo Salvini gli stanno come la cravatta a un cinghiale. E tu sei tanto meglio, giuro. Stai per conoscere la Verità con la V maiuscola. Quella che un potere forte a caso voleva impedirti di scoprire. Sarai puro, duro, e avrai pure l’esclusiva di quella indignazione. Basta che clicchi qui, di fianco al banner di una banca nuova di zecca, costruita intorno a te.

VERGOGNA! TI PRENDONO PER I FONDELLI E NESSUNO NE PARLA!

La via italiana al clickbaiting, da cui nessuna grande testata è immune, si divide poi in due ulteriori macrosistemi. Il primo è più tradizionale. In forma soft, lo praticano quasi tutte le home page dei grandi quotidiani, con punte importanti da parte di giornali che fanno del linguaggio para-satirico la loro linea comunicativa. Il Fatto Quotidiano ne fa in realtà un uso piuttosto blando, quasi nostalgico: si limita a ordinare di cliccare («LEGGI») in coda a ogni tweet, sperando che il lettore sia colto da sovietica disciplina e si fiondi sull’ennesimo fondo dirimente di un padre della patria a caso. Il Giornale ricalca i toni usati su carta, ed è più che sufficiente per rassicurare/attrarre/spingere ad approfondire il lettore che attende i cosacchi in piazza San Pietro, magari supportati da truppe di Rom, immigrati e impiegati di Equitalia. Libero è semplicemente perfetto. In una sintesi virtuosa tra «Verissimo», «Dagospia» e «Il Borghese» (rivista di estrema destra degli anni ’70) alterna con sapienza le tre G (gossip, gattini e gnocca), alternandoli a pioggia, con qualche rara notizia politica. Se l’edizione stampata manca solo del topless in terza pagina per assomigliare ai tabloid inglesi, quella online si incarica di sanare il deficit. E finalmente anche in Italia pratichiamo un po’ di informazione anglosassone. Quella del «Sun».

GUARDA CHE FIGURA STA PER FARE IL PENNIVENDOLO DI TURNO! FATE GIRARE!

Poi c’è anche chi dell’indignazione remunerativa ha fatto un manifesto politico, nonché un paio delle tre gambe con cui sostiene i conti del proprio editore e guida spirituale. Quello col cappelletto. Insomma, Casaleggio. Uno dei mantra utilizzati dal Movimento Cinque Stelle nella campagna contro l’informazione italiana è la classifica mondiale sulla libertà di stampa vergata da «Freedom House», che vede attualmente l’Italia al 49esimo posto «dopo il Niger».

Già la precisazione «dopo il Niger» è un tipico arnese argomentativo che ubbidisce ad almeno tre delle leggi prima enunciate. Infatti:
1) enfatizza un dato ininfluente a scopo sensazionalistico;
2) colpisce l’orgoglio di chi legge il dato, come se lo mettesse a parte in esclusiva di una notizia sconvolgente;
3) rafforza il pregiudizio sull’Africa: “Se siamo dietro a quei selvaggi, significa che la situazione è serissima. Dopo la prossima partita a Candy Crush Saga devo assolutamente fare qualcosa”.

Ma il paradosso più netto è che TzeTze e la Fucina, cioè due dei tre specchi (l’altro è il blog) che la Casaleggio e associati usa per raccogliere traffico e pubblicità, sono i veri funamboli del clickbaiting alle vongole. I critici più severi del sistema, una volta diventati editori, ne incarnano i vizi più deleteri.

ANCH’IO STENTAVO A CREDERCI! PAZZESCO! STA ACCADENDO PROPRIO ORA!

Tre casi. Primo tweet: «Matteo Renzi si ritira: la drastica decisione nella notte». Il navigatore legge, corre a comprare lo champagne, ma poi clicca e scopre che, secondo TzeTze, Renzi dovrebbe (dovrebbe!) evitare comizi pubblici per timore di contestazioni. Secondo tweet: «Che vergogna! Severgnini e la Bignardi, davanti a tutti…». Qui il lettore s’immagina un link di YouPorn per attempati signori. Ma finisce su un’intervista alle «Invasioni Barbariche». Terzo tweet: «Paola Taverna esplode su Facebook!». Avrà aderito all’Isis? E quando? Segue link a sfondo facebookiano in cui la detonazione, come spesso accade, riguarda solo la sintassi.

SCANDALOSO! LA TIRA PER LE LUNGHE MA POI CAMBIA ARGOMENTO! IL CAPITOLO CHE COMMUOVE IL WEB!

Non è dato sapere se la recente decisione di Marc Zuckerberg, che ha modificato gli algoritmi proprio per penalizzare il clickbaiting, attenga alla difesa della buona informazione o non sia piuttosto un modo per evitare troppi clic in uscita verso le sabbie mobili delle tre G, che attraggono navigatori (e dunque pubblicità, e dunque incassi) fuori dal magico mondo dei like.

Certo è che, per una volta, l’Italia era arrivata prima. Noi abbiamo creato la sollevazione popolare da divano, noi abbiamo trovato l’antidoto. Sotto forma di spoilering. Un termine inglese, stavolta senza sofisticazioni, che significa grossomodo «anticipazione carogna». Lo spoilering maligno è quello che esercita l’amico rivelandoti che ne “Il Codice Da Vinci” il Sacro Graal è sotto la piramide del Louvre, che in “Io uccido” il colpevole è il deejay.

Lo spoiler positivo è quello con cui una deliziosa pagina Facebook («Spoilering dei post che non dicono niente di Beppe Grillo») disinnesca, appunto anticipandone i contenuti, i link suggeriti dai tweet malandrini. Anzi, per usare lo stesso linguaggio da uso compulsivo del mouse: LI ASFALTA! LI DEMOLISCE! LI DISTRUGGE! Si scopre così che il 90 per cento di quei tweet esplosivi è la semplice ripresa di notizie già date dai giornali. Che quando su Twitter leggi «LA SENATRICE IEZZI DÀ UNA LEZIONE AL MINISTRO», poi clicchi e scopri che gli ha fatto una domanda in Parlamento. Che se il titolo è «IL PAPA STA CON DI BATTISTA!» non c’è alcun intento blasfemo ma la notizia (dopata) che il Pontefice si è ispirato alle tesi del ragazzo immagine pentastellato sul terrorismo islamico. Che persino quando nel lancio si legge «Il fenomeno che ha spiazzato gli scienziati: la Nasa ha diffuso questa immagine!» si sta parlando del fatto che quest’anno c’è più ghiaccio al Polo Nord.

Talvolta, poi, si arriva pure al clickbaiting circolare, come quando Paola Taverna denuncia la sofferenza bancaria, e lo fa riprendendo un post di Grillo che denuncia la sofferenza bancaria, che viene ripreso da TzeTze, e poi di nuovo rilanciato su Twitter da Grillo che al mercato mio padre comprò. E incassò.

LA DEMAGOGIA CONCLUSIVA! SMASCHERATI I COLPEVOLI! TOGLIETE AI GIORNALI I FONDI PUBBLICI!
(NON C’ENTRA, MA COMUNQUE FA SEMPRE FIGO SCRIVERLO!)

Anche se, in fondo, i veri colpevoli della brutta informazione, della rete confusa e infelice, della balla pretestuosa spacciata come scala verso la verità non sono Grillo o Casaleggio e neppure i geni del marketing che spennano la gallina dalle uova d’oro peggio della Moncler, generando un cortocircuito per cui le masse disprezzano sempre di più quegli stessi organi di informazione cui poi attingono in massa. Cliccando. Senza pensare. I veri colpevoli, nessuno escluso, siamo noi italiani. Il popolo che volle farsi mosca (TzeTze). Del resto, le mosche, intorno a cosa volano?