Seconda parte
(leggi la prima parte)
Nansen, nominato rettore dell’Università scozzese di S. Andrews, tenne il tradizionale discorso di apertura dell’anno accademico il 3 novembre 1926 [1].
Se abbiamo ben presente il carattere dell’uomo e delle sue imprese (Omaggio a F. Nansen – I parte), possiamo ben immaginare il suo disagio di fronte ad un compito così formale come una prolusione accademica. Il suo impaccio traspare chiaramente: nasce così un discorso accidentato, tortuoso ma autentico e, a suo modo, tragico.
“Non dovete pensare che noi anziani siamo soddisfatti di noi stessi come sembriamo” dice e, citando La Rochefoucald, “gli anziani amano dare buoni consigli perché non sono più in grado di dare cattivi esempi” e anche “non incontriamo persone sagge, ma solo persone che la pensano come noi”. Giunge così ad una prima conclusione, tutt’altro che rassicurante per i suoi studenti: la vita sarebbe più facile se potessimo imparare dagli altri, ma la vera saggezza della vita “dobbiamo scoprirla con i nostri occhi”. Qui cita Carlyle: ”L’esperienza ha costi molto alti, ma insegna come nessun’altra cosa al mondo”. Dunque è bene ascoltare chi è autorevole ma “abbiate fiducia di più nei vostri occhi e teneteli ben aperti. Una verità acquisita con i propri occhi vale più di dieci verità enunciate dagli altri, perché invece di accrescere le vostre conoscenze, fa aumentare la vostra capacità di vedere”.
Dopo aver ribadito il suo imbarazzo, Nansen descrive il mondo dei suoi tempi esattamente come noi descriveremmo il nostro, cento anni dopo: “Il mare è agitato ora, la nebbia è così fitta che è difficile guardare avanti. Eppure il viaggio da compiere è estremamente interessante: c’è fermento ovunque; le antiche verità sono state sovvertite ed è compito dei giovani trovarne di nuove”.
Qual è dunque lo scopo della vita da additare ai giovani, prof. Nansen?
“Lo scopo della vita e la conclusione della vita non sta nel diventare famosi e fortunati. Non è così semplice. Siete venuti in questo mondo per fare la vostra parte e farla bene, ovunque siate stati collocati”.
A questo punto del suo discorso, quasi trascinato via dai propri pensieri, comincia a parlare della moralità delle Nazioni, che definisce “bestie rapaci”.
Non può fare a meno di raccontare le sue esperienze con la Società delle Nazioni, che lo avevano incaricato di salvare dalla morte per fame le popolazioni russe durante la carestia del 1921-22 (30 milioni di persone!), che stavano morendo a migliaia. Negli Usa c’era stata una sovrapproduzione di cereali, le compagnie di navigazione europee erano in crisi per mancanza di commesse, milioni di lavoratori erano disoccupati, eppure non fu portato soccorso perché “era colpa dei Russi, era una conseguenza del sistema bolscevico”.
La conclusione di Nansen è che “la pietra di paragone di una autentica cultura è la solidarietà” perché “voi, le vostre famiglie, la vostra classe sociale, siete elementi di collegamenti nello spazio e nel tempo”: la moralità delle Nazioni è invece ancora quella del selvaggio che considera solo il proprio tornaconto personale.
Si ha l’impressione che Nansen guardasse la realtà del mondo come da un’alta vetta: intravede già (siamo nel 1926!) i rischi della creazione di “una famiglia umana uniforme”. Al contrario, le differenze fra i popoli “rendono la vita bella e interessante” ed agiscono come importanti strumenti per “nuovi modi di pensare”.
Tornando ai suoi studenti Nansen parla in modo chiaro: “Non è importante dove siete, ma in che direzione andate. E non è il palcoscenico su cui vi trovate a rendere le vostre azioni grandi. Siete voi stessi a dover inventare il vostro ruolo nel palcoscenico della vita.”.
Il nucleo fondamentale è lo Spirito di Avventura (le maiuscole sono di Nansen), cioè “lo spirito che spinge l’umanità in avanti, verso la conoscenza”. È quella forza che ci fa desiderare “di riempire la vita con qualcosa in più del semplice andare da casa in ufficio e dall’ufficio a casa. È il richiamo dell’ignoto, una forza divina che è racchiusa nell’anima di ogni essere umano.
Raccontando le proprie esperienze di esploratore, Nansen chiarisce meglio cosa intende per Spirito di Avventura: una volta individuata la meta, è indispensabile pazienza e industriosità, attenta preparazione, nessuna approssimazione e, una volta “salpati”, fiducia in se stessi. Non deve esistere “la linea di ritirata”, bisogna demolire i ponti che ci permetterebbero di tornare indietro. Ecco perché Nansen battezzò la nave delle sue imprese “Fram”, che vuol dire “avanti”.
Ricordando la sua durissima esperienza al Polo nord, Nansen rivela un altro suo segreto: quando in seguito ebbe a scontrarsi con le autorità internazionali, in primis la Società delle Nazioni, che giudicavano i suoi progetti umanitari irrealizzabili, seppe resistere grazia alla propria capacità di decidere in modo indipendente: questa capacità gli derivava dai lunghi mesi di solitudine trascorsi durante le sue esplorazioni artiche.
“Non sprecate il vostro tempo in cose che anche altri possono fare altrettanto bene. Ognuno deve sforzarsi di seguire il proprio personale percorso. La prima cosa è trovare voi stessi e per fare questo avete bisogno, almeno qualche volta, di solitudine e di contemplazione. La soluzione non verrà dai luoghi caotici della civiltà urbana. Verrà dai luoghi solitari! Storicamente le grandi riforme sono giunti dai luoghi non contaminati (wilderness).”
“Cercate la felicità? Molti la cercano ma credetemi amici miei, non c’è bisogno di cercarla. Ciò che conta è fare del proprio meglio ed essere indipendenti da qualunque altra necessità, dato che molte di queste presenti necessità sono spesso tutt’altro che necessarie!”
Grazie, prof. Nansen!
[1] Ringrazio Sarah Rodriguez, Muniments Archivist – University Collections, Libraries and Museums Library Annexe – North Haugh St Andrews, Fife KY16 9WH per avermi fornito il testo del discorso di Nansen “Adventure”.
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(leggi la prima parte)