Parte seconda
(leggi la parte prima)
Ruggiero, il fornaio
Erano quasi le nove del mattino. Mentre, mettendomi alla luce, la tua sofferenza diveniva più acuta, giunse confusamente alle tue orecchie l’inconfondibile urlo stridulo di Ruggiero, giovane fornaio. “Linaaa, Linaaa, il pane!”, poche parole, naturalmente in tonalità dialettale. Avevi altro a cui pensare, la sofferenza non ti dava tregua, con la testolina battevo colpi sonori, un ariete, eri tutta bagnata, e il letto era inzuppato dei tuoi umori, delle tue lacrime, di schizzi di sangue.
Lui, un simpaticone, sempre in calzoncini corti, indossava una gialla maglietta spiegazzata e dei pantaloncini rattoppati. Con una fluente chioma, nera come la pece, aspettava la consueta pagnotta, colpito dalla tua affabilità, entusiasmato dalla tua bellezza e da un fremito del cuore, nel lungo corridoio che dava sull’uscio di casa, sul giardino, sull’appartamento di Carmela, la proprietaria, e sul portone d’ingresso.
Reggeva su una spalla, deformata per la innaturale postura, un’asse annerita e scheggiata, infaticabile. La sua bicicletta, scalcagnata, senza freni, copertoni usurati, attendeva tranquillamente nella strada bianca a maccadam. Nessuna catena la proteggeva da miserabili ladruncoli, chi vuoi che si appropriasse di quel rottame anche in un periodo storico così disgraziato e difficile?
Provvide, allora, tua madre, nonna Nicoletta, in terribile apprensione per te, essedo diventata orfana, lei, al momento del parto della bisnonna Angela, a svuotare sulla tavola la soffice pagnotta, avvolta da un panno infarinato, contenuta in un cestino fabbricato da nonno Giuseppe, per il quale a sei anni volevi imparare a cucire, per confezionargli pantaloni e camicie prive di rattoppi.
La nascita
Intanto, nella stanza da letto fervevano le operazioni di aiuto e assistenza al parto. Ero nato! Finalmente! Un sospiro di sollievo comunitario. Emesso da te, innanzitutto, dalla levatrice, da tua madre e da Pasqua, “Rarella”, per parenti ed amici, scrigno delle tue muliebri confidenze giovanili.
La giovane ostetrica, empatica più che mai, scarmigliata, con le mani insanguinate, provvedeva subito a pinzare e recidere il cordone ombelicale, che ti connetteva alla placenta. Poi, con un accurato lavoro di sutura si impegnava a sistemare le lacerazioni, mettendocela tutta per farti soffrire il meno possibile.
In una bacinella veniva adagiata la placenta, distaccatasi dall’utero ed espulsa anche lei per via vaginale. Tu, cara mamma, te ne disfacesti il giorno seguente, sotterrandola nel giardino retrostante. Mentre altre gestanti, allora, la usavano per un paté o la cuocevano al vapore, condendola con un pizzico di nero sale, comprato di contrabbando. Il grosso era fatto, ormai, tutto stava procedendo bene secondo le previsioni e gli auspici.
Di me si stava interessando la tua cara amica Pasqua, a cui l’operatrice sanitaria mi aveva affidato, empatica dirimpettaia, il cui marito rocambolescamente era riuscito a fuggire, uccidendo chi dei cosiddetti nemici lo ostacolava, dalla Iugoslavia, dove per la guerra prestava servizio sotto le armi. Lei aveva per tempo prelevato dalla stufa a segatura della cucina una pentola contenente acqua calda, ne aveva misurato la temperatura immergendovi una mano e raccogliendomi dalla culletta dove ero stato momentaneamente adagiato, mi lavò e deterse in una capiente bacinella.
Prima poppata
A tuffo, ingordo, mi precipitai sul tuo seno, come se da sempre avessi provveduto, quasi senza annaspare ad affondare la mia testolina nel tuo corpo. Afferrai un capezzolo, ruvido, alquanto croccante, e ingordamente succhiai come una motopompa di grossa cilindrata. Soprattutto colostro e tracce di latte. Poi mi addormentai, subitaneamente, saporosamente.
Mi svegliai dopo molte ore tra le tue braccia. Sorridevi compiaciuta e mi accarezzavi la testolina. Cominciai ad agitarmi, un accenno di pianto, le manine rovistarono nel tuo corpo affannosamente, finché tu venisti in mio soccorso e mi adagiasti sul seno. Ne riconobbi subito il tepore e la sofficità. Mi precipitai sulla montagnola con la maggiore competenza, derivatami dalla esperienza della prima volta e subito avvertii la sapidità del tuo latte, saziante, gustoso. Una leccornia che sapeva, questa volta, del sapore inconfondibile del tuo buon pane.
Un “insight”, un lampo di genio, un “imprinting”, una particolare forma di apprendimento precoce, che non mi lascerà più accompagnandomi per tutta la vita. Da quel momento la preziosità dell’ottimo pane fatto da te mi condizionerà profondamente, e diventerà ancora più incisiva e coinvolgente quando per la prima volta cominciai a sgranocchiarlo, affondando i dentini nella crosta, terra di Siena, e nella soffice e fragrante mollica bianca.
Una strategia vincente
Tu, mamma, che comprendevi al volo le mie aspettative alimentari e i miei gusti, immantinente mi accontentavi. Quando qualche problemino disturbava il mio corpo o la mia anima, immediatamente tranciavi un tozzo di pane, “nu tuccarid”, e me lo offrivi sorridendo, accarezzandomi. I miei occhi, dilatati, si illuminavano, le mie mani si protendevano all’istante verso quella incantevole perla alimentare, e la bocca si apriva in una sonora, schioccante, risata.
Una strategia vincente per te, soprattutto quando intendevi rassettare tranquillamente, senza impicci tra le braccia, la casa in fitto, una stanza da letto, una cucina, il cantaro di ceramica ed il vasino per la notte di metallo smaltato bianco: spolverare i quattro mobili fatti da Luigi, il falegname, la cui bottega serviva i poveri clienti di tutto il quartiere contadino, spazzare con la scopa di saggina, lavare per terra con uno straccio, inginocchiandoti, far fuori le mosche che mi infastidivano vaporizzando nell’aria il micidiale “diditì”, molto comune all’epoca, dalla perricolosità sconosciuta, come oggi i pesticidi che stanno avvelenando la campagna, generando patologie di ogni tipo ed immani sofferenze.
Immediatamente cominciavo a rosicchiare quella ghiottoneria, la cui crosta, bruna, dura, un bozzolo, raccoglieva la parte interna, spugnosa, bianchiccia, soffice. La umettavo con la saliva, la ammorbidivo, la erodevo, e a minuscoli pezzettini la portavo in bocca, fino a quando, quasi liquida, la ingurgitavo con avidità.
Nelle giornate serene ed assolate trasferivi nel giardino annesso all’abitazione “u galtòn”, la tinozza per lavare i panni. Le tue braccia energicamente lavavano, con il sapone fatto da te, soda caustica, acqua demineralizzata, acido citrico ed alloro, strizzando energicamente la roba sporca, soprattutto pannolini, cuffiette, calzini, camicine, pantaloncini, strofinacci. I tonfi, che facevano sciabordare l’acqua saponosa e schiumosa, ritmavano con la loro musicalità la frequenza del mio rosicchiare il buonissimo pane. Un concerto con insoliti e rudimentali strumenti musicali.
Ieri ed oggi, colazione, pranzo e cena
Per la colazione erano lontani, allora, gli alimenti processati di un’epoca, quella attuale, di là da venire: briosche, merendine, nutella, biscotti, patatine, cremine, marmellate di fabbrica, dolcetti, varietà infinita di yogurt, cereali, fette biscottate, avocado, tè verde, omogeneizzati, cornflakes, gallette di riso, succhi di frutta, pancake, barrette di cioccolato.
Durante le ricorrenze o nei giorni festivi solo i taralli scaldati, i biscotti mandati al forno, le torte, i mustaccioli, le amarette fatte con pasta di mandorle, i panini imbottiti di mortadella e provolone, i confetti, le scarcelle, le mandorle caramellate davano colore, facendo palpitare le papille gustative.
Tu mi preparavi con tanta abnegazione caldo pan cotto, condito con olio prodotto dal nonno, recuperando pane che era troppo duro da sgranocchiare. Immergevo il pane, miscelandolo con caffè d’orzo nel latte ancora caldo, che il lattaio, scampanellando per le strade mesceva in una tua scodella. Su fette di pane cospargevo marmellata confezionata da te con la dolcissima frutta di stagione, molto diversa da quella insipida dei giorni attuali. Divoravo pane infarcito con carciofini, melanzane sott’olio, o composta di peperoni.
A Scuola e all’Università
Alla scuola elementare e poi anche a quella media, nessuno, nemmeno i figli di famiglie abbienti, portava merendine, non esistevano proprio in commercio. Eravamo tutti, quasi, figli di povera gente, in tempi in cui non era facile approntare colazione, pranzo e cena, soprattutto nelle famiglie cariche di figli e con genitori a carico. I più, dalla cartella, tiravano pane e pomodoro, pane e marmellata, pane e cipolla, mangiati al momento della ricreazione con un appetito senza pari.
Immancabilmente quando un amichetto della numerosissima classe di 45 alunni si appartava, stando a guardare senza portare nulla alla bocca, qualcuno di noi gli si avvicinava, offrendogli un pezzo di pane, una mela, un racimolo di uva, un fico secco. I suoi occhi brillavano per lo spuntino offerto ed anche per l’amicizia manifestata con i fatti.
Avevo appena finito la scuola elementare ed iniziato la media, quando un’immensa ruota di traino mi travolse, scaraventandomi a terra, mentre mi recavo a comprare la mozzarella per il babbo, affetto al fegato da una malattia contratta in guerra. Il polpaccio della mia gamba sinistra venne orrendamente squartato, e il sangue dilagò come un ruscello.
Il pediatra Scommegna Ruggiero, passando con la sua vettura nel luogo del sinistro stradale, non ebbe l’ardire di fermarsi per soccorrermi, era indaffarato, poverino, vi provvide un minatore, pietoso, che estraeva carbone dalle visceri del Belgio. Il pronto soccorso mi fece languire per oltre un’ora su una barella.
Arrivò presto un maresciallo dei carabinieri che nell’intervista mi chiese se guidavo il manubrio della biciclettina con una sola mano, avendo rinvenuto su luogo dell’incidente un tozzo di pane che languiva tristemente. Mentii, dicendo che il pane era in tasca, per timore di aver trasgredito qualche norma del codice stradale.
Probabilmente fu proprio il tuo pane, mamma, appena arrivato dal forno, caldo, strappato dalla pagnotta, a salvarmi dall’irresponsabilità del pediatra, dalla strafottenza dei medici del pronto soccorso, a tutelarmi da una morte prematura. Tu, invece, angosciata, ti precipitasti in ospedale non appena fosti informata dell’incidente da una voce caritatevole.
Al liceo classico tutti facevamo colazione portando degli alimenti da casa, solo qualcuno si serviva al bar esterno alla scuola. Io non sapevo rinunciare al pane infarcito di carciofini, melanzane sott’olio, composta di peperoni rotondi, i tipici “paponi”, . Ogni giorno, senza mai provare nausea, anzi avvertivo l’impressione che quel cibo, gustoso, potenziava le mie capacità cognitive e mnemoniche.
Talvolta, accadeva un episodio spiacevole, che mi faceva anche sorridere. Approfittando del fatto che ero vicino alla cattedra per l’interrogazione, Pasquale Dagnello, il mio amico di banco, trafugava la mia colazione, e subito dopo chiedeva di andare al bagno, consumandola indisturbato nel corridoio della scuola.
Scuotevo la testa, ritornando al banco, lui si stringeva nelle spalle, ammiccando un sorriso sornione. Mi faceva tenerezza, portandomi ad abbozzare una smorfia di allegria. Ora, quando lo vado a trovare a Brindisi per avvalermi della sua competenza di provetto otorino, per le mie orecchie claudicanti, mi offre ospitalità assieme a colazioni, pranzetti e cene da favola, quasi banchetti nuziali.
Dispiega su lungo tavolo una considerevole varietà di frutta e verdura coltivata nel suo orto-frutteto. Sua valida collaboratrice Palma, moglie da sempre, da quando, innamorato, le procurava francobolli per la collezione, condensato di risate fragorose, solarità e affabilità, nonostante dipenda da un girello, per difficoltà di postura.
Il pensiero correva, per la varietà e quantità di cibi, alle cene di Trimalcione, un rozzo liberto arricchitosi con i commerci, protagonista del Satyricon, testo dello scrittore latino Petronio che avevamo studiato durante le ore di letteratura latina. Pasquale e Palma, però, non si davano arie da gran signori, come il goffo personaggio romano amante di scenografie pacchiane, che si circondava di parassiti ed ignoranti, ma sciorinavano a profusione gentilezza ed ospitalità amabile.
Il mio consueto menù, l’allestivo e consumavo anche durante gli anni dell’Università. Allora, un intervallo di quattro ore separava le lezioni di storia, filosofia, etnologia, letteratura italiana e lingua latina del mattino da quelle del pomeriggio inoltrato. Non conveniva, perciò, tornare a casa con il treno, data l’esiguità del tempo. Preferivo, per la dannata determinazione di laurearmi in tempo, occupare una panchina dei giardini pubblici della stazione per studiare, mangiucchiando il panino con carciofini o melanzane sottolio che avevo portato da casa.
Raramente raggiungevo la casa dello studente. Una sola volta mi azzardai a consumare un frugale pranzo in una rosticceria vicino alla stazione, e mal me ne incolse. Il giorno seguente febbre a quaranta, precipitoso arrivo del medico di famiglia, il dott. Russo.
Ero inferocito con me per l’insana ed improvvida iniziativa, lontana mille miglia dai miei consueti orizzonti. Stavo correndo il rischio di rinunciare a partecipare al Congresso di filosofia, opportunità culturale che l’Università di Bari mi aveva elargito. Non mi meraviglio che oltre all’antibiotico fu anche il pane fatto da te, mamma, a farmi guarire in fretta in modo da ripartire anche se con un giorno di ritardo. Da quella nefasta esperienza avverto ancor oggi una viscerale repulsione, in parte ingiustificata, verso i locali pubblici.
Il sacco di farina
Si ergeva turgido, un sacco di farina nella cucina dell’abitazione di via Barberini, dove ci eravamo trasferiti, quando avevo otto anni, racimolando, tu, cara mamma, e il babbo, lira dopo lira e costruendo in economia una casetta, all’angolo dietro la porta, su un banco. Quando si svuotava completamente, si provvedeva a rimpiazzarlo. Divenuto adolescente, mi affidavi la commissione di mercanteggiare con Giuseppe, il negoziante di generi alimentari della strada di casa, il prezzo di un sacco di farina da 25 chili.
Una volta la settimana tiravi fuori dall’atrio, su cui si affacciava la cucina, il tavoliere di legno, consunto dalla ultradecennale usura, e vi svuotavi quattro chili di farina. Bianca, doppio zero. Profumata e incontaminata, allora, al limite sorvolata da qualche farfallina, molto diversa da quella attuale, che sa di pesticidi ed anche di glifosate irrorato in Canada per anticipare di un mese la maturazione del grano.
Le tue laboriose mani aprivano, nell’ampia, bianca, friabile montagna di farina, un cratere, e vi versavi gradualmente dell’acqua tiepida, sciogliendovi il lievito madre, messo da parte al momento della precedente panificazione e ripetutamente rinfrescato in settimana, o offerto da Pasqua. Protagoniste indiscusse entravano in azione, le tue braccia e le tue mani.
Sembrava di assistere a una lotta estenuante. Il tuo corpo si protendeva in avanti ed arretrava. Il tavoliere di faggio, urtando contro la parete produceva ripetuti rumori, a cui nessuno faceva caso, mescolandosi a quelli dei carri dalle enormi ruote, provenienti dalla bianca strada di sassi e stabilizzato compattati da un rullo compressore. La farina, l’acqua e il lievito madre, coniugandosi con il valore aggiunto del tuo sconfinato amore per la famiglia, realizzavano un impasto che si allungava, si arrotolava fino a diventare una palla.
La mattina seguente, presto, alle cinque l’impasto era lievitato a dismisura, diventando più del doppio del volume della sera precedente. Rispondeva, intanto, con maggiore remissività alle operazioni delle tue mani. I microrganismi, che si erano moltiplicati a dismisura durante la notte, ne provavano un infinito giovamento. Non restava che formare cinque voluminose pagnotte da sistemare in canestri fatti con listelli di canna e rami di salice, che il nonno portava dall’Ofanto dove possedeva un podere con pere “affaverse”.
Dopo alcune ore arrivava un giovane fornaio, simpatico, paziente, lanciava il solito urlo stridulo, piazzava le pagnotte sulla rabberciata asse, la issava su una spalla, montava in bicicletta e senza mai cadere o scontrarsi con altri veicoli, miracolo!, raggiungeva il forno. Fuligginose le pareti, copiose le ragnatele percorse da indaffarati ragni, caldo asfissiante d’estate. Fornaio, annerito, segnato dalla fatica e dall’arsura.
Il miracolo economico, cambiano costumi e valori
Intanto in Italia era arrivato il “miracolo economico”. La crescita era in ripida e in rapida ascesa. In tante abitazioni spadroneggiava la televisione, che come il miele attirava amici e conoscenti per alcune trasmissioni popolari. Molte famiglie possedevano una piccola vettura, il frigorifero, l’aspirapolvere e la lavatrice, che soppiantava il mastello di legno, elettrodomestico che consentiva di fatto la vera emancipazione delle donne.
Cambiarono anche le abitudini alimentari. Si diffuse il costume di abbandonare la tradizionale pratica di fare il pane in casa e di acquistarlo al vicino negozio di generi alimentari. Anche la nostra famiglia cadendo nel trabocchetto molto pubblicizzato da radio, televisione e giornali, finì in fondo al baratro.
Un mastodontico errore, una balordaggine
Passano diversi decenni. Oggi sono dell’avviso che fu un grave errore, seguendo l’onda in piena del fiume sociale ed economico, alimentarsi con pane, che poteva anche essere genuino ed economico, ma che mancava per lo meno del valore aggiunto offerto dal pane prodotto in casa dalla mamma.
Quello, poi, che si vende e compra oggi, fa allignare pensieri malevoli. Già il fatto che il giorno seguente diventa duro, come una pietra, lascia sbigottiti. Dubbia la sapidità, discutibili i suoi effetti sul metabolismo, ignota, poi, l’origine delle farine, sconosciuta ma presumibile ed inquietante la coltivazione del grano, la sua mescolanza con sostanze di dubbia valenza per la salute umana.
La famiglia, luogo in cui avviene la riproduzione biologica, ma congiuntamente anche quella sociale e culturale con la trasmissione di valori e della cultura, ha subito un totale tracollo con l’avvento della società industriale che costringeva ed obbliga ad abbandonare la terra di origine, per emigrare altrove, e a lavorare in due per reggerne il peso economico, sociale e culturale.
L’acquisto del pane nei supermercati, che hanno fatto sparire i piccoli negozi familiari, una balordaggine imposta subdolamente dai padroni della Terra, fatta intravedere come una forma di emancipazione. In realtà è una deprivazione della propria autonoma azione, accettata supinamente, una delega cosciente. E’ proprio il caso di dire che la schiavitù è volontaria.
L’intero pianeta Terra, ormai, va omologandosi in tutti i beni, diventati merci, e per tutti i suoi componenti, prostrati al rango di sudditi. Un accentramento di poteri e denaro nelle mani di pochi ingordi raffazzonatori. Pochissimi, a fatica, riescono a sottrarsi dall’ineludibile condizionamento, quasi uno status di benessere e riconoscimento sociale.
La famiglia, ed i singoli di conseguenza, viene in effetti, espropriata delle sue autonomie decisionali ed operative. Lei, quasi compiaciuta, come se si trattasse di una reale emancipazione, vi sottostava e si subordina passivamente, lasciandosi plasmare e manipolare. Irresponsabilmente.
Di modo che… Il consumismo dilagante straripa. Il becero intrattenimento multimediale dilaga. Il turismo alleva improvvisati accattoni di opere d’arte e località amene. La sanità pubblica, offerta col contagocce, diventa di giorno in giorno più striminzita. La scolarizzazione di massa viene imposta esclusivamente dal Ministero e dalla azienda scuola per avviare e preparare ad un mestiere o una professione; quasi mai alla formazione umana della persona, se non si vince il terno al lotto di imbattersi in docenti pregevoli. La politica, asservita all’economia ed alla tecnica, indiscussa dominatrice, nascosta dietro il paravento della apparente molteplicità di offerte, di fatto uccide la democrazia, il governo del popolo dal basso.
Un coro di voci che urlano l’immediato cambiamento di prospettiva e di azione. Un’assillante richiesta di rispetto, giustizia, libertà e fratellanza per i più avveduti e consapevoli, mettendo al centro di tutto l’intera Natura, nella svariata ricchezza della sua biodiversità, di cui fanno parte gli esseri umani. Che non devono dominare sugli animali della terra, sui volatili del cielo e sui pesci del mare, come suggerisce la Bibbia nella Genesi, ma vivere in equilibrio.
In questo attuale concerto sconclusionato, si avverte anche la distonia di un pane che non è all’altezza delle reali aspettative salutistiche e gustative. Se era comprensibile, dunque, con lo sviluppo della tecnica, l’abbandono del lavare i panni in una tinozza, o sul bordo di una vasca comunitaria o lungo il fiume, fatica chiaramente massacrante, non è stato e non è altrettanto giustificabile l’abbandono apparentemente spontaneo della produzione di pane casalingo.
Gente tenace e ravvedimento, anche se tardivo
Perciò, da qualche mese ho cercato personalmente di ricucire un sano rapporto con il pane, producendolo con le mie mani, prendendo a paradigma il poeta Memeo Salvatore, che è sempre rimasto immune dalla contagiosa malattia della perdita della propria autonomia.
Dopo alcuni tentativi ed errori, dopo essermi documentato sui libri e chiesto informazioni ad amici, come il panificatore Ferdinando Piccolo, riesco a produrre un pane di qualità, utilizzando farine di grani antichi acquistate da persone di fiducia.
Il metabolismo ne ha cospicuamente guadagnato, il gusto è eccelso. Tutti ci possono riuscire con un po’ di impegno e dedizione a sé stessi, se ci si vuole profondamente bene e si impara anche ad amare gli altri e il mondo intero in tutte le sue articolazioni floreali, faunistiche e litiche.
***
(leggi la parte prima)
Tra tutti gli alimenti, anche adesso, il pane è annoverato come il cibo per eccellenza. Locuzioni come “Guadagnarsi il pane” o “togliersi il pane di bocca” fanno parte del nostro linguaggio. Nel Vangelo poi è un protagonista importante di molte storie nonché della preghiera più famosa. Mi piace l’ idea di ripartire dalla panificazione per combattere il consumismo… Qualche anno fa panificabi anche io con il lievito madre, forse sarebbe ora di ricominciare. Forse non sarò all’ altezza della tua mamma ( O della mia) ma vale la pena provarci
Anche questa seconda parte già letta eccelsa come al solito
Faccio i più sinceri complimenti al professor Dalba, un gran esempio di cultura e dedizione .
Un grande abbraccio
Il pane della mamma è un film di altri tempi.
Ho rivissuto le emozioni e i profumi da ragazzino, quando per i vicoli percepivo gli odori di ciò che le mamme stavano preparando.
Il mio caro Prof. è rimasto lo stesso di allora, semplice, genuino, giusto, coerente, amante della natura e della vita.
Ricordo quando veniva a scuola in bici, la sua “graziella” ecologica e durante la pausa sgranocchiava biscotti fatti in casa.
Sarebbe bello vedere proiettato il suo racconto sul grande schermo.
Bellissimo articolo! Si percepisce che l’autore non ha dimenticato la sua infanzia, la sua vita fatta di amore per le cose belle e nobili che sanno ancora parlare a chi ha il cuore aperto alle pure gioie della vita semplice!
Il brano mi ha ridestato in cuore tanti ricordi, mi hanno “aggredita” con quell’arma impropria chiamata nostalgia. E ho iniziato a frugare tra i risvolti dell’anima e nelle pieghe del passato e misteriosamente mi sono venuti incontro litanie di nomi e di vite, voci e canti e pianto, chiasso di giochi, una nenia di racconti, sapori di cose semplici, di pasti frugali e …
L’ODORE DEL PANE caldo e croccante della mamma!
Grazie per l’emozione, che mi ha portata a risvegliare la bellezza nascosta, tirarla fuori dalle nebbie del tempo ed esaltarla fino a farla vibrare!
Ogni volta che ho il privilegio di leggere i racconti di Domenico è per me uno scoprire antiche usanze e costumi oramai dispersi nel tempo. È come un ritrovarsi bambini nelle consapevolezze di oggi, facendo mie le sue storie. I ricordi di tempi passati, il pensiero della mia mamma, l’acquolina che inevitabilmente nasce spontanea pensando al profumo del pane riempie e soddisfa la mia voglia di sapere. E fra l’altro scoprire usi antichi che mai avrei immaginato, come il cuocere la placenta e condirla con il pepe nero. Ed ogni volta è una scoperta ed una riscoperta di luoghi, di persone, di culture e di sapori che la tua meravigliosa terra offre. Grazie Domenico
Ricordi vivi ma essenziali Domenico sempre presente nella mente mia mamma ha impastato il pane fino all’ ultimo dei suoi giorni.
Grazie Domenico
Uno dei racconti più profondi che io abbia mai letto! È un’ode all’amore materno, è un viaggio nei meandri più intimi dell’animo dell’autore. È bellezza, è meraviglia, è essenzialità, è autenticità, è sentimento, è vita vera vissuta! Un racconto che andrebbe premiato dalla critica per l’elevato carico valoriale che trasuda! Quanto amore in questo pane!
La narrazione di Domenico è una falesia a picco nel mare del sentimento, della nostalgia, della speranza di una riconsiderazione del gran mare dell’ essere. La falesia si staglia candida alla luce dell’ indagine con la sua stratigrafia storica ben in evidenza: dallo strato lambito dal mare, cioè il momento della nascita, egli risale grado dopo grado fino alla sommità dell’ oggi con grande dovizia di micro particolari che delineano scrupolosamente ogni passaggio. Ci fa rivivere tanti momenti e tante epoche cullati dal profumo agrodolce del pane materno. Agro e dolce insieme perché prezioso viatico di gioia ma anche di esperienze piene di dolore. Ed è qui che la bianca falesia affonda nel mare e, sotto il pelo dell’ acqua, pesca nell’ inconscio profondo. Qui mi fermo…non ho le competenze per procedere in tale direzione; posso però dire quanto nella lettura Domenico mi ha comunicato: il desiderio di un uomo buono, sincero e colto di condividere la bellezza delle cose semplici e profondissime con l’auspicio della condivisione, del mutuo appoggio, perché si possa costruire una vita autentica. Con il buon pane tra le mani.
Racconto più che emozionante.
Complimenti vivissimi Domenico.
Nonostante non abbia vissuto quell’epoca, mi hai fatto rivivere le stesse emozioni che mi
trasmetteva mio nonno ,che era solito raccontare storie analoghe alla tua durante le giornate lunghe, faticose e INDIMENTICABILI alle prese con la raccolta delle olive.
Ormai mio nonno è passato a miglior vita da quasi trent’anni,ma ci pensa la mia mamma e mio padre a tener vivo i ricordi del passato.
Mi ha colpito,particolarmente, la parte dedicata all’impasto, avendo visto mia madre svariate volte alle prese con lo stesso amore,energia e grinta ,trovata nel tuo amabile racconto.
Che dire,ancora complimenti e farò attenzione a recuperare tutti i tuoi racconti passati e soprattutto a non perdermi i futuri.
GRAZIE .
Grazie a tutti gli amici che hanno dedicato alcuni momenti del loro tempo per leggere l’articolo “Il pane della mamma” e commentarlo.
Un modo, anche per volere bene a sé stessi.