Parte prima
Da una remota galassia
Alzo la testa al cielo, cerco e individuo nella miriade di astri quello che balugina in sintonia col mio ritmo cardiaco. Uno stato di benessere mi pervade, e avverto una sensazione di levità, quasi che il mio corpo non avendo più peso, venga sorretto esclusivamente dall’aria.
Come brilla, nonostante la distanza di anni luce! È la stella di mia madre, in compagnia, in quella galassia remota, con le mamme della Terra di tutti i tempi, indaffaratissime nello splendere, nel vorticare, nel vegliare sui propri figli, orientandoli in caso di bisogno. Incantevole! Diventa sempre più nitida e calda, man mano che la metto a fuoco con precisione.
Da quando, cara mamma, ho ripreso il tuo costume, trasmesso di generazione in generazione per migliaia di anni di fare il pane, la risonanza emotiva si è intensificata e la frequenza delle tue vibrazioni, intrecciandosi e coniugandosi a quella delle mie, mi aiuta a ricordare e raccontare fatti e sensazioni di momenti in cui la mia consapevolezza era fievole, un fioco lumicino
Il parto
Tutto mi è chiaro, ora. Evidente. Trasparente. Erano le nove del mattino di una giornata estiva, precisamente il 16 luglio del 1943, quando le contrazioni uterine erano diventate frequentissime, le doglie non ti davano tregua e infine l’orifizio del collo uterino si apriva. Eri solo una ragazzina di vent’anni alle prese con un’esperienza cruciale. Michele, tuo marito, allora, rischiava la vita in Libia, per la guerra, che tu e lui detestavate visceralmente, mentre gli uomini di potere e denaro la osannavano. Irresponsabilmente!
Potevi contare, quindi, solo sulla tua fragilità e su Nicoletta, tua madre, amabile, laboriosa ma analfabeta e ciecamente devota, e su Giuseppe, affabile padre, lavoratore instancabile, sordomuto dalla nascita. Apprensiva per natura, il tuo stato di preoccupazione per la buona riuscita del parto e per la salute del nascituro/a ti scombussolava in profondità.
Che tepore nel tuo utero! Uscendo dopo nove mesi dalla calda spelonca, mi raggiunse, una zaffata di aria fresca, tremai per i brividi. Non era ancora del tutto terminato il tratto di strada per la vita autonoma, dovevo ancora finire di attraversare l’ultimo miglio, il più angusto, il canale vaginale, stretto tunnel, e le sofferenze ti dilaniavano, lacerandoti incredibilmente. Credimi, per l’empatia che spontaneamente si sviluppa tra tutti gli esseri del mondo, animati ed apparentemente inanimati, colpito nei timpani e nel cuoricino dalle urla di dolore e dai contorcimenti del corpo, provai un sentimento di pietà per te, mammina mia, cara.
Ecco… la luuuce! Un bagliore incredibile. Abbagliante. Scossi la riccioluta testolina nera, le mie palpebre si rinserrarono. Strizzai gli occhi, abituati a stare in penombra, urlai. Gli astanti, Grazia, l’ostetrica, la nonna Nicoletta, Pasqua, amica del cuore, sorrisero e battettero le mani con compiacimento. Dal giardino, sul quale si affacciava la stanza da letto giunse il festoso cinguettio di passeri appollaiati sul fico carico di dolcissimi frutti, il frinire inarrestabile ed irrefrenabile delle cicale.
Quella mattina, ti eri alzata presto, benché le doglie del parto cominciassero già a bussare con insistenza e veemenza sul tuo corpo straziato dai dolori di più giorni. Dovevi impastare il pane messo a lievitare la sera precedente. Era indispensabile, non potevi permetterti, dati i difficili tempi e le ristrettezze economiche, che l’incipiente impasto andasse a male. Ti tranquillizzava, però, l’intuizione, rivelatasi fallace, che sarei nato nel pomeriggio inoltrato o la sera, tardi. Ma la natura è imprevedibile per gli uomini. Anche per le donne, dotate in genere più degli uomini di maggiore intuizione e più spiccata conoscenza sentimentale.
I dolori quella notte erano stati intermittenti e veementi. Andavano e ritornavano, con una frequenza sempre più ravvicinata. All’alba, però, si erano chetati. La pancia era traboccante. Io, in salute e in procinto d’imboccare la strada entusiasmante della vita in pieno sole, scalciavo allegramente, ti sentivi in forza.
Bene, dopo pochi minuti facesti irruzione nell’attigua cucina ed affondavi le mani, ora dispiegate, ora rinserrate a pugni, nella soffice pasta lievitata. I microrganismi del lievito madre, che vivono sulla Terra da miliardi di anni e posseggono raffinate sensibilità cognitive, rimasti sorpresi ed attoniti, fibrillarono per te.
Alcune ore dopo, però dovette intervenire urgentemente Grazia. Si erano, inaspettatamente o per la fatica del tavoliere, rotte le acque. Un fiume di liquido amniotico, che mi aveva fatto crescere in un ambiente ideale, proteggendomi da traumi ed infezioni, offrendo una giusta temperatura, straripò. Era inodore, chiaro e aveva una consistenza leggermente vischiosa. Mescolato vi era il meconio, la mia prima cacca.
Bellissimo Mimmo me lo facesti leggere su WhatsApp (Anche se poi lo riscrivesti 3 volte 😉 )
In questo meraviglioso racconto, come in una serie di dipinti, ci si immerge negli usi e costumi del passato, quando.. mentre da una parte ci si ammazzava per la guerra, dall’altra sorgeva una nuova vita avvolta in un barlume di speranza basata su dei valori, oggi in via di estinzione.
In questo racconto ho percepito vivamente, il vissuto cucito addosso, dalle vicissitudini degli anni della guerra, ma mi mette davvero a pensare di come ci si sfamava con con quello che c’era (spesso anche il nulla) e il racconto della placenta sotterrata e vista come un possibile companatico mi da i brividi a pensarci… di come potesse essere il livello di fame che si viveva nelle case normali paragonate alle nostre al giorno d’oggi così senza nemmeno tormentarsi troppo. Ma il ricordo è così vivo da interpretare il parto e la nascita concome un’evento vissuto di recente…
E la solidarietà di buon vicinato con chi non aveva nulla ? Qualcosa che chi lo ha vissuto sulla propria pelle riesce a fare la differenza su tanti aspetti della vita quotidiana.
Un capolavoro