
Una breve ma piacevole chiacchierata con il noto batterista andriese Mimmo Campanale
Mimmo, le va di raccontarci com’è iniziato il viaggio, iniziato a soli 15 anni, che oggi le ha permesso di diventare un musicista affermato?
Ero un quindicenne che come tanti all’epoca frequentava l’Oratorio Salesiano e lì, ascoltando i gruppi musicali che suonavano, è nata in me la passione per la musica.
Dapprima ho iniziato con la chitarra, poi c’è stata una breve parentesi con il violino. In seguito mi sono innamorato della batteria e, dopo aver insistito a lungo con i miei, ho avuto la mia prima Eko da 65.000 lire. Ho iniziato a muovere i primi passi con alcuni amici: suonavamo in cantina e, divertendoci, avevamo fondato la prima cover band dei Pooh.
All’epoca non studiavo ancora la batteria, ma verso i 18 anni è subentrata l’esigenza di conoscere meglio, e in modo completo, questo strumento. Ho iniziato dunque a studiare da autodidatta con l’aiuto di amici che mi prestavano i loro libri. Ho continuato nello studio della batteria anche dopo aver espletato il servizio militare e, man mano, con gli anni, mi sono innamorato di diversi generi: pop, rock, funk, soul. Solo il jazz non mi piaceva, non aveva acceso in me la passione. In seguito ho cominciato a capirlo e oggi anche suonare il jazz mi rende felice al pari degli altri generi musicali.
Quando ha iniziato, negli anni Settanta circa, era fortemente radicato anche ad Andria il dubbio che la passione per la musica potesse trasformarsi in un lavoro concreto. Come ha conciliato la sua passione con lo scetticismo dell’epoca?
Credo che questo scetticismo persista ancora oggi. Certo, la mentalità degli andriesi è cambiata, ci sono un sacco di musicisti oggi, che però dopo i 18 anni devono “mettere la testa a posto!” e pensare ad un lavoro che possa garantire loro un futuro più certo. Anche io, a modo mio, ho messo la testa a posto, nel senso che ho scelto la strada che più mi avrebbe appagato. Non parlo dei guadagni, perché soprattutto nei primi tempi non guadagnavo nulla, però mi divertivo. È questo il consiglio che oggi do a mio figlio – anche lui suona la batteria – e ai miei allievi: non suonare per guadagnare, ma per divertirsi, perché la musica è prima di tutto divertimento.
Oggi, che la musica è diventata il suo lavoro, si diverte ancora?
Più di prima, perché ho ancora lo spirito e l’incoscienza di un diciassettenne. Un musicista deve avere quell’entusiasmo; se si diventa razionali, non si può più fare musica.
Pensando alla figura del musicista appassionato, appare spontaneo pensare a Ludovico Einaudi che suona tra i ghiacci: immagine, quest’ultima, che rappresenta l’emblema della solitudine del musicista malgrado la moltitudine del suo pubblico. Qual è il suo rapporto con la solitudine?
Credo che tutti noi musicisti siamo un po’ soli, o quantomeno ci piace essere in solitudine. Si tratta di momenti non necessariamente tristi, talvolta, anzi, sono forieri di puro piacere. È in quei momenti di solitudine che può capitare di comporre brani anche allegri, non per forza tristi o nostalgici.
La realtà oggi è cambiata rispetto ai suoi esordi, oggi dominano il pessimismo e la paura, anche nella nostra città, sconvolta da quel tragico 12 luglio. Qual è la sinfonia che oggi sente di dedicare alle tante vittime innocenti?
Certamente non un brano triste; mi viene in mente “Last train home” di Pat Metheny, un brano in cui il batterista rievoca il suono di un treno. Colgo l’occasione per ricordare il mio amico Fulvio Schinzari, una delle 23 vittime di quel tragico 12 luglio, appassionato della musica, della sua chitarra. Se dovessi associarlo ad un genere musicale lo accosterei al jazz, d’altronde gli piaceva molto, ma in generale era un vero appassionato della musica.
Che messaggio sente di dare ai giovani?
Vivere qualsiasi forma di arte con passione. Sento di rivolgermi anche a quei genitori troppo presenti nelle scelte dei propri figli al punto da condizionarle: lasciate che questi ragazzi siano liberi e coltivino le loro passioni.