
È idea comune che la condizione di mamma sia una delle più impegnative da gestire. Le difficoltà sono di ogni genere e grado, fisiche, ma soprattutto emotive. Specie per le mamme immigrate.
La mamma è colei che si ritrova condannata ad amare un altro essere, qualunque cosa esso faccia. Per questo il suo si chiama “amore incondizionato” e la cosa non sempre è divertente, anzi. Pasolini lo aveva reso bene nel verso di una sua poesia: “tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore”.
Chiunque si sia soffermato a riflettere sulla grandezza e la complessità di un ruolo simile, può allora capire il peso che comporti aggiungere alla condizione di mamma, quella d’immigrata. Uno spaccato realistico lo offre un bellissimo film da poco uscito: Fatima. Girato in Francia dal regista Philippe Faucon e ispirato ai libri di Fatima Elayoubi, la pellicola racconta il quotidiano di una donna algerina espatriata, impegnata a crescere da sola 2 figlie adolescenti.
Una fotografia puntuale del fenomeno delle mamme immigrate, invece, è possibile trarla da un recente approfondimento dell’Ismu. Le rilevazioni sono relative alla Regione Lombardia, l’unica ad avere un sistema di monitoraggio adeguato a questo genere di analisi, tuttavia le tendenze registrate ci dicono qualcosa sull’intero paese. Sono stati delineati tre profili tipo di mamme straniere: le mamme “transnazionali”; le mamme “angeli del focolare”; le mamme “come le nostre”.
Le mamme “transnazionali” sono quelle che hanno i figli fuori dall’Italia, nel proprio paese di provenienza, e lavorano da noi per mantenerli. Sono oggi molto minoritarie, circa 1 su 10. Di solito lavorano come badanti o domestiche e per lo più arrivano da Ucraina, Filippine, Moldavia, Perù, Romania. La loro età media è alta, 45 anni circa, e hanno dai 2 ai 4 figli. Guadagnano 1000 euro al mese, di cui 400 riescono a inviare a casa, ma lavorando molte ore in più rispetto alle 40 fissate per legge. Di solito queste donne hanno almeno un diploma di scuola superiore, mentre il 10% di esse ha anche una laurea.
Le mamme “angeli del focolare” sono quelle che hanno figli solo in Italia e vivono con il proprio marito senza cercare lavoro. Sono in numero maggiore rispetto alle mamme “transnazionali”, ma comunque minoritarie, 2 o 3 su 10. Provengono in prevalenza dal Marocco, dall’India e dall’Egitto. Più della metà sono musulmane, hanno un’età media di 36 anni, stanno in Italia da almeno un decennio ma, nonostante ciò, hanno scarsa conoscenza della lingua. Hanno un numero medio di figli più elevato delle altre, in larghissima parte bimbi nati in Italia, ad oggi per la maggior parte minorenni.
Le mamme “come le nostre” sono quelle con figli solo in Italia, che lavorano o cercano lavoro. Sono la maggioranza, 7 su 10. Provengono da Albania, Romania, ma anche Egitto e Marocco. Hanno nuclei familiari comuni: un marito e uno o due figli. La loro età media è di 37 anni e, quando lavorano, lo fanno prevalentemente part-time, guadagnando circa 600 euro al mese. Fanno le domestiche, le donne delle pulizie, le cameriere. Rappresentano una componente dell’immigrazione che gli esperti definiscono “stabilizzata”. In sostanza pensano alla loro vita stabilmente in Italia. Le rimesse che inviano ai loro Paesi non superano di solito i 100 euro. La maggior parte di esse sono diplomate, una discreta parte laureate, infine molte hanno almeno una qualifica professionale. Anch’esse vivono nel nostro paese da almeno un decennio e il loro livello d’italiano è buono.
Ciò che accomuna quasi tutte queste donne è una tenacia invidiabile. Alle difficoltà che il ruolo di madre impone loro, vanno aggiunte quelle del non parlare la lingua dei propri figli, e, ad esempio, non poterli aiutare coi compiti a scuola. Come anche ad iscriversi a scuola. Oppure non poter andare ai colloqui con gli insegnanti. Non poter parlare coi dottori, monitorare le amicizie.
Soprattutto, ciò che le segna, è veder crescere la propria prole in un ambiente completamente diverso da quello di provenienza, ambiente che spesso fa paura poiché incomprensibile. E poi c’è la solitudine, quella logorante di donne lontane dalle proprie madri, sorelle, fratelli e amiche. Nel film citato la protagonista definisce la sfida di crescere le proprie figlie come “la mia Intifada”. Il termine evoca meglio di ogni altro il tipo di conflitto che queste donne sono chiamate a vivere. Quello di vincerlo è il nostro augurio più sincero.