Quando si parla di migranti e ci s’interroga sul perché questi siano disposti a intraprendere viaggi tanto rischiosi, di solito si addossa la responsabilità alla loro disperazione. Ma la speranza?

Quando si parla di migranti e ci s’interroga sul perché questi siano disposti a intraprendere viaggi tanto rischiosi, di solito si addossa la responsabilità alla loro disperazione. Ma la speranza?

La disperazione è certamente un fattore fondamentale, determinante nel mettere in moto gli eventi, a far sì che “migranti ecologici” rischino il tutto per tutto, pur di trovare una casa, pane e acqua, eppure non esaurisce il discorso, non spiega tutto. Oltre alla disperazione si deve infatti tenere conto di un altro elemento altrettanto importante, ma che ha avuto fino adesso meno attenzione: la speranza.

Leggendo l’ultimo libro di Alessandro Leogrande, La Frontiera, si apprende che un anno esatto dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, durante la commemorazione, alla presenza dei parenti delle vittime, fu distribuito un breviario intitolato “Morire di speranza”. È curioso notare come più si è coinvolti in prima persona nel fenomeno migratorio, più si conoscono direttamente le storie e le motivazioni che inducono a partire, più non ci sono dubbi sul fatto che il vero motore di tutto sia la speranza.

Suggestioni letterarie a parte, che i migranti partano mossi da speranza più che da disperazione, è la tesi di Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia dei processi migratori all’Università degli Studi di Milano. Il professore fa notare come oggi i migranti internazionali siano nel mondo 235 milioni, il 3% della popolazione mondiale, invece i poveri sono molti di più. Inoltre gli immigrati in grandissima parte non provengono dalle nazioni più povere del pianeta, né sono i più indigenti dei loro paesi d’origine. Per migrare occorrono risorse, spesso anche ingenti se considerati gli stipendi medi dei paesi da cui questa gente parte. Ecco che non può essere la disperazione la causa scatenante, altrimenti i dati sarebbero dovuti essere presumibilmente altri. In molti casi, conclude Ambrosini, l’emigrazione è una strategia di estrema difesa di uno stile di vita da classe media.

Realizzare ciò è importante per dare profondità all’idea che abbiamo dei migranti, per non ridurli all’immagine macchiettistica dei disperati che arrivano sui barconi, in definitiva per comprendere il fenomeno. Si prenda l’esempio dei siriani. Milioni di loro, una volta perso tutto, si sono messi in viaggio lasciando la propria terra, raggiungendo Turchia, Giordania o Libano. Una volta in questi paesi sono stati accolti nei campi profughi dell’Onu, a questo punto a molti di loro si è presentata una scelta. Restare nel campo per anni, forse decenni, conducendo una vita grama, ma senza correre il rischio di morire durante il viaggio; o provare, con gli ultimi risparmi portati con sé, a raggiungere un qualche parente in Europa nella speranza di rifarsi una vita? È chiaro che chi può permetterselo parte, il disperato è chi resta nei campi.

Dovrebbe risultare più comprensibile allora la caparbietà, la tenacia, l’inarrestabilità di questa gente: il fuoco che li muove è quello motivante della speranza, non quello paralizzante della disperazione. Ernst Bloch, storico e filosofo tedesco, negli anni Cinquanta del ‘900 dedicò al tema un’opera monumentale chiamandola Il Principio speranza. È significativo che il primo titolo immaginato per il libro fosse Sogni di una vita migliore, la stessa inseguita dagli stranieri che giungono da noi.

Bloch spiega come la speranza non abbia solo valore psicologico o affettivo, non sia esclusivamente qualcosa di soggettivo, ma sia più che altro “atto orientativo di specie cognitiva”. Ossia la speranza, ove suscitata, tiene conto di dati reali e grazie a questo diventa “coscienza anticipante”, cioè il presentimento di una vera esistenza. Per intenderci, il vecchio adagio per cui “chi di speranza vive disperato muore” per Bloch è completamente infondato, poggia su un’idea di speranza ingenua, che non è la sua.

Lo storico tedesco spiega invece come la speranza sia un’utopia concreta, una volontà di salvezza o di successo storicamente mediata, radicata in un contesto storico-sociale realmente esistente. È in sostanza un progetto, e può esserlo perché è coerente a un’idea di essere che non è pura presenza, mera immediatezza, ma è pensato come un “non-ancora-divenuto”. La speranza è l’espressione di una possibilità dell’essere, ecco il suo profondo radicamento nell’uomo e la sua inesauribile spinta. Se si tiene conto di ciò, si finisce per guardare all’epocale sommovimento di popoli a cui stiamo assistendo, come al manifestarsi macroscopico di un’attitudine umana, una modalità che ha trovato le condizioni per ritagliarsi il proprio ruolo. Guardando al fenomeno in quest’ottica si capisce quanto inutili siano le misure che oggi certi paesi europei stanno prendendo per bloccare i flussi. Prova ne è che gli arrivi in Europa vanno avanti da almeno 2 anni e qualunque cosa sia stato fatto, o qualunque cosa sia successa, non sono cessati.

Questo perché, si potrebbe dire con Bloch, “il lavoro della speranza non è rinunciatario, di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”.