Non si tratta solo della storia di un tale Gesù di Nazareth. È la storia di tutti i visionari che forzano il presente e lo costringono al cambiamento.

Non si tratta solo della storia di un tale Gesù di Nazareth. È la storia di tutti i visionari che forzano il presente e lo costringono al cambiamento.

Esiste ancora un interrogativo dell’essere umano che tormenta il nostro animo e sul quale la resurrezione del Crocifisso proietta un raggio di luce? Oppure, in un contesto di crisi, predomina il pauroso appiattimento di alcuni “caudatari” saliti sul carrozzone del “faraone” di turno?

Che senso ha l’eliminazione o l’accantonamento violento di coloro che si sono impegnati per il bene comune? Che futuro hanno i tanti, vissuti nell’anonimato, che storicamente sono stati crocifissi per aver manifestato il proprio pensiero, rifiutandosi di rinnegare la propria esperienza e la propria professionalità, quale patrimonio di una collettività? La storia è generalmente raccontata da coloro che hanno trionfato e dal punto di vista del loro trionfo. Chi compenserà la sofferenza dei vinti? È la solita storia infinita, penosa e insopportabile!

Ora, a risorgere è stato uno di questi sconfitti e crocifissi, Gesù di Nazareth, “servo sofferente”: non un Cesare all’apogeo della sua gloria, né un generale al vertice della sua carriera, né un saggio al culmine della sua fama. Ma la vita di Gesù dopo la morte non è un suo esclusivo privilegio, bensì è il destino che spetta a tutti coloro che possiedono il suo Spirito, coloro che, come Lui e con Lui, dedicano la propria vita al bene comune, “caudatari” compresi (Gv 11, 25s; 1Cor 15, 20-22).

Gli arrivisti, coloro che detengono il monopolio del “carrozzone”, non possono definire il quadro finale della vita di una persona o di un gruppo, e neppure il senso ultimo dei fatti.

A fare la differenza sono i gesti concreti con la coerenza personale e non la conflittualità esasperata di chi ricerca lo scontro per dimostrare la propria onnipotenza, che, a volte, sfocia nelle aule di un tribunale, dove non c’è posto per “pontificare” in pomposi abiti liturgici ben paludati.

La resurrezione appartiene alla realtà della vita: è il miracolo del coraggio di coloro che amano, per cui la resurrezione avviene molto prima della morte; comincia oggi, guarendo, ovunque, le ferite dell’anima; rendendo luminosa ogni diversità offesa; accarezzando la guancia colpita e ridonando bellezza a ogni dignità tradita. Qui la vita deve tornare a risplendere negli sguardi smarriti di donne e uomini inermi, con le mani vuote perché private del lavoro e quindi incapaci di dare pane, ma che nei loro silenzi chiedono un futuro.

Purtroppo la nostra esistenza può essere devastata dalla paura e dall’angoscia che ci eliminano molto tempo prima che arrivi la morte e questo, spesso, non a causa della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli “onesti”!

In Gesù di Nazareth la carica vitale è stata talmente forte che le persone vissute al suo fianco hanno recuperato dinamismo; uscite dai loro sepolcri, si sono riaffacciate alla vita: avevano scoperto che la loro piccola esistenza aveva il significato dell’eternità. Chi ascoltava il Nazareno aveva cominciato a sentirsi grande, pur nella propria piccolezza, di una dignità che arrivava fino alle stelle. È questa la vita eterna: un attimo di felicità in cui il cielo si apre mentre noi stiamo ancora sulla terra. In questo contesto le tombe non sono più tombe, ma ponti gettati verso l’infinito: sono luoghi per riiniziare un dialogo.

Parafrasando David Maria Turoldo, occorre imparare che la croce, di cui farci carico, è quella di essere sempre in “tensione con il nostro presente”, nella fatica di chi si interroga e vive una volontà non guidata dalla hybris del proprio ego.