“La Frontiera” è il settimo libro di Alessandro Leogrande. Pubblicato da Feltrinelli a fine 2015, nelle sue 300 pagine cerca di raccontare con lo stile netto e ficcante del giornalismo narrativo, il sommovimento epocale che partendo dall’Africa e dal Medio Oriente, sta cambiando per sempre anche l’Europa. In occasione della sua presentazione ad Andria organizzata dal Circolo dei Lettori, abbiamo approfittato per parlarne con l’autore. Questo è quanto è venuto fuori dall’incontro.
“La Frontiera” a me è sembrato un libro difficile da scrivere, sia per contenuti che per la vastità della materia trattata: è così? Per quanto tempo ci hai lavorato? Da dove è nata l’idea di scriverlo?
Ci ho lavorato 2 anni, ho iniziato poco dopo il naufragio a Lampedusa nell’ottobre 2013. All’interno del libro però confluiscono storie ed esperienze che io ho raccolto lungo un ventennio e che ho tenuto da parte parallelamente anche ad altri libri che ho scritto. È un lavoro sì, difficile, che mi ha posto anche qualche difficoltà nella riflessione su come scriverlo. Fin da subito l’idea era di fare un testo totale, cioè qualcosa che provasse ad afferrare “la frontiera” in tutta la sua complessità. D’altra parte però non volevo fare un saggio, cioè una ricostruzione giornalistica a volo d’uccello, ma qualcosa che avesse anche la specificità, la densità e il dettaglio delle storie umane. L’unico modo di fare questo era creare un rosario di storie che in qualche modo s’intrecciassero e si rimandassero a vicenda.
Nel libro racconti di quando sei stato a Lampedusa un anno dopo la strage. In quel caso avevano distribuito un breviario intitolato “Morire di speranza”: in base a quelli che hai incontrato tu riusciresti a dire se i migranti partono più per disperazione o per speranza?
Io credo che le due cose siano intrecciate. Quel che è sicuro è che non parte gente che si va a fare un giro per il mondo per vedere che aria tira, e magari trovarsi un posto di lavoro. Nella stragrande maggioranza dei casi chi scappa da Siria, Iraq, Afghanistan, Eritrea, Somalia, sta scappando da situazioni estremamente gravi, tanto che poi quasi sempre il riconoscimento di rifugiati gli viene accordato. È un gioco dell’oca perverso quello che si crea. D’altra parte però l’elemento di speranza non è trascurabile. Lo stesso titolo “La Frontiera”, fra la decina di significati che contiene, ne conserva uno che rimanda alla frontiera come dimensione utopica, di sogno: è la speranza esercitata dalle luci di un porto che vedi in lontananza. Questo continua ad essere un mito d’attrazione fortissimo, si capisce dalle stesse immagini o video degli sbarchi.
Buona parte del libro è giustamente dedicata alla questione eritrea. È una questione dai risvolti agghiaccianti che in quanto italiani dovrebbe toccarci molto di più. Perché secondo te è così taciuta nel nostro dibattito pubblico? Lo è anche in ambienti sensibili a questo genere di tematiche, ad esempio se ne sa di più della questione curda o palestinese.
È vero. Infatti il mio stupore viene da questo, non che non se ne parli nei circuiti mainstream. Di Eritrea si parla veramente pochissimo. Sui motivi ci si potrebbe interrogare a lungo. Sicuramente c’è una rimozione che nasce dalla ben più generale rimozione del colonialismo, che è un tratto caratteristico dell’Italia. Ma ci si è voluti dimenticare anche del periodo post-coloniale. Dopo la caduta del fascismo l’Eritrea ha continuato a mantenere una sua comunità italiana, delle scuole, fino agli anni ’70. C’è quindi un’ignoranza del colonialismo e un’ignoranza della decolonizzazione. Questo pone le basi per la confusione totale di cui siamo vittime quando ci approcciamo a questi temi. Ad esempio dire eritrei è dire niente. È come dire italiani fascisti quando c’era Mussolini. Non è vero. C’erano italiani fascisti, antifascisti e a-fascisti. Così all’interno della diaspora eritrea in Italia tu hai gente che è arrivata 20 anni fa e quindi crede nel regime, gente che scappa da quel regime, gente che lavora per i servizi segreti, gente che non vuole essere messa in mezzo. Ricostruire questo cosmo nelle sue fratture è essenziale, altrimenti sia nella versione cattivista, sia nella versione buonista, finisce che abbiamo sempre una visione appiattita dei profughi, degli immigrati, degli eritrei, non una visione reale.
Negli anni hai scritto libri come “Il Naufragio”, “Uomini e caporali”, “Le male vite”, “Un mare nascosto”, oltre ovviamente a “La Frontiera”. L’impressione è che tu non abbia fatto altro che scrivere di Mediterraneo. Da dove viene questa ossessione, o, se preferisci, questo fascino?
Be’ intanto, diceva Silone, uno scrive del posto dove è nato e vi ritorna ossessivamente. Io sento una forte identità tarantina e pugliese, chiaramente nell’accezione più ampia e meno identitaria possibile. Taranto è la mia città, lì c’è la mia biografia, la sento ancora mia anche se ormai sono anni che non ci vivo più. Oltre a questo, Taranto e la Puglia hanno incarnato, e incarnano, tutta una serie di conflitti e di frontiere della contemporaneità. La questione adriatica, il rapporto con l’immediato Est, il fenomeno del caporalato, sono tutte questioni nazionali e internazionali, di cui mi sembrava in qualche modo inevitabile occuparsi. Poi è vero, la domanda coglie un punto, tutti questi temi sono anche mediterranei. Il problema è proprio quello di maturare una visione sovrannazionale, geopolitica, di tutte le tensioni che attraversano questo mare.
A proposito di ciò, il Mediterraneo è un problema per l’Europa o una risorsa?
Va innanzitutto detto che il problema dei profughi non è un’emergenza che passerà come è venuta, diventerà la nostra quotidianità, ci avremo a che fare per almeno 20 anni. La nostra risposta allora non può essere quella della chiusura, né tanto meno emergenziale, bensì deve essere tarata sulla sfida. A questo proposito c’è una disattenzione colpevole da parte dei paesi dell’Europa non mediterranea nei confronti del Mediterraneo. L’Europa a questo punto resterà unità, e non è detto, solo se tematizza il Mediterraneo, solo se è in grado di pensarlo e di avere una politica che lo tenga al centro. Se questo non si verifica, l’Europa implode.
A un certo punto nel libro dici che “Roma non è una città tollerante. È una città che tollera la tolleranza”. È un giudizio che può essere esteso all’Italia intera? Gli italiani in fondo in fondo sono razzisti, o in fondo in fondo sono brave persone? Che idea ti sei fatto in merito?
Ovviamente ci sono un po’ di razzisti e un po’ di brave persone e poi un’enorme zona di mezzo in cui forse tutti si riscoprono un po’ razzisti e un po’ brave persone. A Roma come in tutta Italia. Non credo che la Capitale sia apertamente razzista, ha una capacità, forse millenaria, di smussamento degli attriti, nonché di inglobare e rielaborare ogni cosa, anche con un certo cinismo. Dall’altro lato è palese un imbarbarimento di alcune relazioni sociali, quindi non ne farei una cartolina. Il razzismo è dato spesso dal graduale decadimento delle relazioni comunitarie, non dal fatto che ci si metta a tavolino per decidere di implementare politiche razziste. Ci sono interessi economici e sociali che pian piano degenerano e ammorbano e insozzano anche il modo di pensare della gente, così il lavoro da fare per uscirne diventa molto più complicato.