La mobilità di persone e di famiglie è un segno dei tempi e non un semplice fatto di cronaca. È un evento che mette in discussione tutta la nostra identità umana; un evento che non manifesta solo la differenza tra le persone, le culture e le religioni, ma anche l’uguale dignità umana.
Oggi si parla più di tolleranza, meno d’integrazione. È come se si dicesse: giacché non è facile volersi bene, tentiamo almeno di sopportarci; è già non odiarci e ammazzarci (anche se qualcuno ha pensato ai cannoni come soluzione del problema).
Mi chiedo: il razzismo è paura degli altri, della povertà o è paura di se stessi, della propria coscienza, della propria libertà? Gli immigrati che sbarcano nella nostra terra arrivano portando con sé il ricordo di un Occidente colonizzatore oltre che sfruttatore delle loro ricchezze e delle popolazioni. Non può essere questo ricordo, in effetti, a farci avere paura di noi? Il nostro xenofobismo non è da curva sud, ma ha tante facce, spesso è opportunista o pulito solo in apparenza.
Stiamo costruendo così “un mondo senza l’altro”, diviso in due: “Noi e gli altri”, rischiando che tutto finisca in un disordine globale, nel rifiuto dell’altro.
Una domanda: perché gli immigrati ci danno fastidio? Perché infastidiscono quando, per esempio, si avvicinano alla nostra macchina o espongono la loro merce lungo i marciapiedi, e non quando sono atleti o artisti? In questo caso diventano addirittura oggetti di culto, pagati a peso d’oro.
Platone affermava: “Lo straniero separato dai suoi concittadini e dalla sua famiglia dovrebbe ricevere un amore maggiore”.
Quando i popoli si muovono nulla resta come prima, né sul piano politico, né economico. L’esodo in corso non è da considerare il “male”, ma il “sintomo” di un male, poiché è il segnale di un mondo ingiusto ed è denuncia di un’idea di Occidente, fulcro della civiltà, che va sfaldandosi. È innegabile che la civiltà occidentale ha prodotto risultati che sono patrimonio dell’intera umanità (letteratura, filosofia, arte, scienza), ma è anche vero che sono presenti tanti aspetti discutibili. Per esempio, mettere insieme civiltà e saccheggio che i Paesi evoluti molto spesso operano, con i loro perversi meccanismi economici, scambi commerciali a scapito delle economie più precarie. Il sostegno che l’Occidente dà ai regimi corrotti, spesso anche voluti. Le multinazionali – i faraoni di oggi – continuano a creare schiavi affamati, denutriti, arrabbiati.
La verità è che dobbiamo ormai convincerci che esistono più culture, tutte con proprie caratteristiche, storia e dignità. Bisogna accoglierle e confrontarsi con esse. L’integrazione è un processo lento, faticoso, scomodo, che esige il suo prezzo, ormai necessario, se si vuol stare al passo dei tempi: “Forse è tempo di passare dalla cultura dello scarto alla cultura dell’incontro”.
È necessario convincerci che le migrazioni non sono libere decisioni o semplici avventure, ma scelte forzate, anzi più che scelte, necessità. Gli immigrati sono, in gran parte, “vittime” della globalizzazione. Globalizzazione e migrazioni camminano a braccetto, sono “gemelli” indivisibili.
Forse sarebbe il caso di non dimenticarlo.
[…] La cosa rilevante è che a fianco a domande d’interesse strettamente linguistico, i questionari ne prevedevano alcune di stampo più sociologico. Se allora prendiamo per buono quanto scritto da Leopardi nel suo Zibaldone, cioè che “le lingue sono sempre il termometro de’ costumi, delle opinioni, delle nazioni e de’ tempi, e seguono per natura l’andamento di questi”, quelle domande sulla lingua italiana diventano un’occasione. Diventano un modo per capire l’idea che gli stranieri che vorrebbero vivere in Italia hanno dei nostri “costumi” e d…. […]