
Il percorso di Massimiliano Pappalardo
Ci sono molte strade per avvicinarsi ad un autore e coglierne gli assi portanti ed una di queste è di tener conto delle diverse fonti di Siloe a cui si è abbeverato, fonti sia di natura culturale provenienti dal campo del pensiero filosofico-scientifico ed artistico che da altre ricavate da esperienze professionali che l’hanno arricchito nel percorso di vita e di pensiero; una volta ben metabolizzate, sono state estese nei vari campi dell’umano o meglio in difesa dell’umano e delle sue potenzialità e se interrogate ancora più in profondità, sono diventate delle vere e proprie risorse insieme cognitive ed esistenziali per affrontare le sfide che ci attendono. E questo si è verificato anche grazie al fatto di essere state sapientemente coniugate ed intrecciate tra di loro in base a quel vero e proprio ’a priori dello spirito’ che domina il nostro tempo, per usare un’espressione di Hélène Metzger (Hélène Metzger: la complessità come rimedio razionale, 20 agosto 2020), e rappresentato dal mondo della complessità, col nutrirsi insieme delle testimonianze di diversi artisti del ‘900, di esperienze di vita di figure come quelle di Simone Weil, di Adriano Olivetti, di suggestioni provenienti da altri ambiti come quello di Giorgio Gaber, di Massimo Recalcati, Han Byung-Chul e di Taleb Nassim. Tale non comune approccio ha caratterizzato il percorso di Massimiliano Pappalardo che ha avuto come esito in primis quello di tradurre la propria preparazione di base, quella filosofica e coltivata in terra siciliana, in pratica di vita concreta e indispensabile per ridisegnare i contorni dell’umano, come già avevano indicato i Maestri Greci, per i quali era già molto chiara ed operativa nella polis l’idea che conoscere, ‘studiare è amore al vero, educare è amore all’uomo’ insieme con la coltivazione della bellezza, come viene evidenziato in modo significativo nel sottotitolo di una sua opera Filosofia dell’educazione ed in Filosofia della bellezza (Torino, Effatà Editrice, 2018 e 2020), idee strategiche non a caso nello stesso percorso di vita e di pensiero di Simone Weil.
Fedele a questo intento, fatto che spesso si dimentica a volte anche da parte degli stessi cultori delle discipline filosofico-scientifiche, Massimiliano Pappalardo ha svolto e svolge la sua attività come studioso e promotore della Cultura del Cambiamento in azienda, coll’occuparsi di Mindfulness, Leadership Risonante, Abitudini e Responsabilità col ricoprire il ruolo di Responsabile Ricerca e Innovazione presso EXECO, dopo aver diretto il Campus universitario del Politecnico ed il Campus dell’Università Vita-Salute San Raffaele; accompagnate da corsi su temi come la consapevolezza, la responsabilità e la delega educativa, tali esperienze, frutto delle rugosità della vita aziendale, sono confluite prima nel volume del 2013, scritto insieme a Laura Guzzo, Dammi vita! Le parole delle relazioni, poi in Filosofia dell’educazione e nei più recenti Filosofia della bellezza. L’essenziale è visibile agli occhi ed Essere antifragili o del coraggio. Otto movimenti per sviluppare una mentalità antifragile e un cuore coraggioso (2013, 2020 e 2021, Effatà Editrice).
Ciò che accomuna tali testi che si distinguono anche per l’importanza non comune accordata alle etimologie dei termini e all’umile ma a volte indispensabile lavoro filologico, oltre che per la varietà delle fonti filosofiche e artistiche che li nutrono, è il fare tesoro, quasi in senso biblico dei Proverbi, del senso implicito nelle esperienze personali incentrate sulle relazioni all’interno delle organizzazioni aziendali con un’ottica rivolta alla persona vista nella sua integralità ed unicità; e nello stesso tempo non è da meno la presa in carica di quelle vissute da diverse figure come Olivetti che ha costellato il nostro tempo per aver avuto il ‘cor-aggio’ di mettere in campo progetti per una reale ‘cultura del cambiamento’ in campo economico e civile pur contando solo sulle proprie forze grazie al fatto di essere stato vero e proprio ‘cuore pensante’ del nostro tempo a dirla con Etty Hillesum, un’altra figura tenuta presente.
Da tutto questo, come si evidenzia nel prime pagine di Filosofia dell’educazione, emerge una non comune diagnosi delle patologie umane del nostro tempo caratterizzate dal fatto di aver messo da parte l’altro, considerato quasi un “portatore sano di infezioni”, e dal conseguente “eccesso di estensione quantitativa del soggetto” o di “obesità esistenziale” che lo porta ad una “positività violenta derivante da un eccesso di prestazione”; sorge così una forma di depressione in campo lavorativo dove “un io a lavoro” col suo “desiderio infinito di plasmare la realtà” viene a scontrarsi con “una capacità finita di realizzarlo” col produrre “violenza contro sé e contro ciò che rimane”. Questo “soggetto regredito”, pur “convinto di progredire e di generare progresso”, produce una serie di riduzioni che conducono il “lavoro a prestazione”, “l’efficienza a frenesia”, “la determinazione a isteria”, “la libertà di poter-essere a quella del poter-fare” e soprattutto il “pensiero strategico a pensiero produttivo” e a “calcolo (stupidità computazionale)”, primo passo per renderci passivi e sprovvisti di senso critico e creare all’interno delle nostre menti le condizioni dell’auto-sfruttamento; tali riduzioni per Pappalardo mettono da parte la necessaria “vita contemplativa” in grado di guardare oltre e che dà “senso e consapevolezza” al tutto, come avevano indicato Nietzsche prima e poi Simone Weil col suo porre al centro di ogni atto della vita ‘l’attenzione’ come un vero e proprio ‘rimedio razionale’ nel senso di Hélène Metzger. Una simile attitudine di pensiero-azione è stato alla base non a caso nel progetto di Adriano Olivetti coll’innescare processi di innovazione che sono partiti dal rinnovare le relazioni interne alla fabbrica per poi estendersi al prodotto finale e nei suoi dintorni.
Per questo Pappalardo ritiene necessario inserire ad ogni livello fra le stesse capability organizzative delle aziende, alle prese a loro volta con l’accresciuta ‘consapevolezza del dilemma della complessità’ a dirla con Alberto F. De Toni, dei processi non certamente facili che segnino il passaggio “dalla prestazione alla relazione” col “possibile ritorno dell’altro” dove, per gestirle nel loro assessment, diventano strategici l’atto educativo e la continua formazione che portano a confrontarsi con “l’evento dell’altro, l’evento per eccellenza”, proprio nel senso di Alain Badiou col suo portato di verità e di unicità, visto nella sua “nuda alterità come anticorpo dell’ego”; se vissuto come “una vera e propria epifania”, tale processo è ritenuto più in grado di “traghettare dalla prestazione cieca e involutiva alla relazione drammatica, ma sempre storicamente evolutiva, sebbene dolorosa”. Nella vita aziendale, come nella vita di ognuno di noi, il rapporto costante con gli altri col suo portato di “dolore relazionale” e di “ferita” può tramutarsi in una risorsa in quanto “apre, considera e sparge il seme della possibilità”; ed ogni atto educativo da parte del formatore (Form-autore) per Pappalardo deve “formare ad essere con” e non più mirare a “progettare ennesime braccia meccaniche del sistema” e deve portare, a partire dagli stessi manager, a “restituire a chi lavora oggi il proprio volto originario e quindi unico e appunto originale”. Ed è ciò che fece Adriano Olivetti ispirato da quella fonte che fu Simone Weil per l’importanza data al lavoro, la cui esperienza di fabbrica può rivelarsi ancora indispensabile nel dare ad “ogni voce una visione del mondo”, ad “ogni bocca il proprio grido”, ad “ogni passo la propria meta”.
Filosofia dell’educazione si rivela, pertanto, quasi un testo-manifesto per ridare centralità al lavoro col ritenere strategico guardare a quella cultura del lavoro, ritenuta “il cuore pulsante dell’Europa medioevale prima e rinascimentale dopo”, periodo caratterizzato da una “profonda cura per l’oggetto del proprio mestiere o della propria arte” e da una “passione pedagogica per l’educazione e la formazione dei giovani”; e questo come prova del fatto alcune aziende in questi ultimi tempi stanno “ripartendo da questo modo di formare, mettendo al centro la persona come crocevia insostituibile dei costruttività” nel tentativo di uscire fuori “dalle strette gole di concetti stantii e neoliberisti quali risorsa e capitale”. Sono dei tentativi per Pappalardo, come quelli portati avanti da Simone Weil negli anni ’30 tra alcuni imprenditori parigini per cercare di umanizzare il lavoro di fabbrica per far fronte alle strette gole tayloristiche e ai primi intravisti esiti devastanti del capitalismo finanziario, “per fare impresa alla luce di un abbozzo balbettato ma onesto di neoumanesimo”; ma i diversi attori che compongono una organizzazione aziendale devono coltivare degli strumenti adeguati che mettano in atto processi di autoeducazione e di formazione “consapevoli” che “un uomo educato al proprio talento sarà capace poi di rendere vocazione il proprio lavoro”, dove i manager devono in primis “imparare a diventare un ‘direttore d’orchestra’, capace di ispirare fiducia e, da qui, generare un tutto che sia superiore alla somma delle parti” con la coscienza di “un’entità produttiva il cui rendimento sia superiore all’unità”. E per questo si insiste sulla necessità di formare dei “manager maestri” che insegnino alla corretta gestione di un’azienda, la cui mancanza, dovuta al guardare solo alla “propria carriera”, è anche uno dei fattori di crisi del mondo del lavoro.
Massimiliano Pappalardo, col mettere a frutto la sua esperienza di formatore nelle aziende rivolta alla cultura del cambiamento e al loro miglioramento qualitativo a partire dalle persone che ivi operano, arriva a ritenere che lo stesso “management, per essere performante, deve diventare un esercizio relazionale, una macchina per la produzione di fiducia” dove vengono a coniugarsi insieme “autonomia e fiducia”, fattori determinanti nel dare alito al “circolo virtuoso della cooperazione” e passare così “dall’autoefficacia all’etero-efficacia” e al “riconoscimento” fondato sulla fiducia reciproca; è questo è ritenuto un modo per combattere l’inganno del “neoliberalismo che non solo ha reso sterili le drammatiche ma nobili istanze marxiane, ma ha svuotato di senso la parola libertà riducendola ad una forma di possibilità a fare, erodendolo della sua tensione relazionale partecipativa”. Per questo, nelle ultime pagine di Filosofia dell’educazione, giustamente si insiste sull’”educare come cura” col fare riferimento al termine della lingua inglese, mutuato dalla medicina, care che sta a significare tenere conto della persona nella sua integralità, mentre cure è inteso solo come curare una patologia fisica; e dato che “non vi è cure senza care, non può esservi care senza cure”, si ribadisce che il vero atto educativo nell’avere a che fare con le diverse rugosità della vita, là dove si mette in pratica dalla scuola al mondo del lavoro, va al di là dell’addestramento e della formazione ed “introduce l’allievo nella totalità della realtà con tutto se stesso”, oltre ad essere “l’antidoto, l’antitesi dell’autosfruttamento della pseudo-libertà”. In tal modo si mettono in atto le condizioni di base di quello che Adriano Olivetti ha chiamato weilianamente ‘il mondo che nasce’ col conseguente ‘cammino delle comunità’.