La mia vita si è tinta di tutti i colori… 

Analogia o contrappasso? Senza esitare ho scelto il contrappasso. Agire all’opposto per me è stato vitale, un atto di imperio emesso da me su di me con decorrenza immediata alla nascita di Paola, la mia primogenita. Una sorta di “prevenzione” sulla sponda del mio essere madre e di “cura”. Un antidoto al veleno che i miei genitori mi avevano iniettato con la loro sordità cieca e con la loro ottusa incapacità di dialogo.

Con quale coraggio due genitori decidono di dare a un figlio un nome come il mio? Mjaftoni. Il mio nome ingloba la parola “abbastanza”. Scelta diabolica e reciprocamente intimidatoria. Ogni volta che i miei genitori avrebbero pronunciato il mio nome non avrebbero mancato di ricordare a se stessi di non commettere più il madornale errore di mettere al mondo un figlio. Deflagrante l’impatto su di me. Appena udivo il mio nome, un minipimer a doppia elica frullava il mio cervello e il mio cuore, riducendo in poltiglia informe le tessere del mio già precario mosaico di frammenti di autostima. Un mix di suggestioni sfondava la mia anima e, senza il mio permesso, venivo invasa da nemici occulti. Come gigantesche onde anomale, i sensi di colpa, l’imbarazzo di esistere, il dolore di costituire un peso per i miei genitori e il disperato bisogno di essere amata mi schiantavano sugli scogli della mia solitaria e triste isola esistenziale. L’unico sfogo in grado di sollevare la curva del mio umore era lo sport. Ero agile e scattante e vincevo le gare di atletica fino ad arrivare a selezioni importanti in campionati provinciali e regionali. Questa avrebbe potuto essere la mia chance di riserva per riedificare dalle macerie la mia identità personale. Invece non è andatacosì.

La possessività di mio fratello ha inferto il colpo di grazia tarpando le mie ali nel campo dello sport. Così lamia vita è andata avanti senza slanci, in balia dello squallore di giorni monotoni e anaffettivi.

Avevo conosciuto durante un allenamento un ragazzo che giocava a calcio. Abitava lungo la via che

attraversavo nel percorso da casa a scuola e non c’era giorno che non lo incrociassi. Mi ammiccava in modoinequivocabile con lo sguardo di chi ha il pensiero fisso di volerti spogliare con gli occhi. Io lo temevo e lo scansavo.

Era maggio. Di primo pomeriggio. Il malintenzionato riuscì ad acchiapparmi e a trascinarmi in una vigna non molto lontana dalla scuola. Urlai, mi dimenai… Nessun passante in mia difesa… Nessun suo ripensamento a scoraggiarelo scellerato disegno. Mi stuprò e poi fuggì. Tramortita e barcollante, tornai a casa.

I singhiozzi del mio pianto attirarono l’attenzione di mia sorella che capì subito tutto dal mio modo dicamminare. Le balbettai sillabe confuse che confermarono i suoi sospetti. Mi diede botte a valanga.

– Colpa tua – crudelmente tuonò. – L’avrai provocato tu! Tieni solo per te quello che è successo. Nonraccontarlo a mamma e a papà perché sono sicura che ti punirebbero Quindi, zitta!

Seguii il suo consiglio, ma non avevo più voglia di vivere. Ero un automa, un robot programmato a fare tutti i giorni lo stretto indispensabile. Ad accartocciarmi sempre di più, la totale cecità dei miei genitori ai cui occhi passava totalmente inosservato il malessere della mia non vita. Tornò settembre. Frequentai per pochissimi giorni il secondo anno di scuola superiore. La paura di rincontrare il mio assalitore mi sommerse. Nelle sue acque naufragai e, con me, il progetto di completare gli studi nei quali riuscivo bene, nonostante tutto. Ora restava il problema di comunicarlo a casa con una credibile giustificazione a sostegno della mia decisione apparentemente improvvisa, perché la tendenza a menarmi dei miei genitori era inversamente proporzionale alle amorevoli attenzioni verso di me. Per qualche giorno finsi di andare a scuola. Poi comunicai che la scuola non faceva per me e che avrei cominciato a lavorare in un’azienda tessile. Dopo circa due anni di questo lavoro, incontrai un amico che mi confidòla sua intenzione di trasferirsi in Grecia.

Sgranai gli occhi. Quella notizia mi svegliò dal torpore della mia comatosa esistenza. Fu come avvistareun’improvvisa scia luminosa in una notte buia.

– Vengo con te – gli

Partii con il mio amico senza interferenze. Non avevo ritenuto di comunicarlo a nessun componente della mia famiglia, che informai solo a posteriori. Avevo il bisogno viscerale di porre tanti chilometri di distanza tra me e loro. Significò per me trasporre sul piano geografico quello che i miei genitori mi avevano inflitto in senso psicologico erigendo altissimi muri di silenzio e recinzioni blindate. Loro sempre al di qua e io al di là. In Grecia stemmo bene. Avevamo trovato un tetto confortevole e avemmo la fortuna di entrare sotto l’ala protettiva di una famiglia grecaproprietaria di una grande macelleria nella quale lavorammo. Erano persone speciali dallo sconfinato senso diospitalità. Ci offrivano un pasto caldo tutti i giorni.

Intanto in Albania, a casa mia, stava succedendo qualcosa di insperato. Il mio allontanamento stavafacendomi prendere corpo agli occhi di mia madre, che andava rendendosi conto che io ero nata, ero esistita ed esistevo ancora. Erosa dai rimorsi, mi implorava di tornare a casa. Decisi di darle una nuova possibilità e tornai in Albania. Trovai finalmente il coraggio di raccontarle l’episodio di violenza subita. Che mai l’avessi fatto! Mi riempì di ingiurie e mi dette della bugiarda. Le sue parole furono lame affilatissime che tranciarono di netto l’ideale cordone ombelicale che lega un figlio a sua madre dalla nascita alla morte.

….e successe qualcos’altro di gravissimo che impedisco al mio stato cosciente di portare in superficie e di narrare. Senza che l’avessi pianificato, mi ritrovai in Italia. Non mi fidavo neppure della mia ombra. Se un uomo si avvicinava a me, sobbalzavo indietreggiando di almeno un metro. Ma un giorno capitò qualcosa di incredibile. Una mia amica doveva recarsi a Trani per conto di suo marito presso un’azienda che commerciava pietre e mi chiese di accompagnarla. Quel giorno a trattare con i clienti c’era il figlio del titolare. Appena arrivate, ci presentammo al tizio con una stretta di mano. Io avvertii una vibrazione fortissima che, dalla mano, si propagò per tutto il corpo, obbligandomi a puntare gli occhi di chi mi stava trasmettendo quella strana corrente vitale. Anche dall’altra parte accadde qualcosa. L’uomo improvvisamente arrossì e iniziò a sudare. Ne fui turbata. Non riconoscevo i segnali di quello che molti mesi più tardi avrei ceduto a definire “amore a prima vista”. Da quel giorno, ogni giorno, quell’uomo percorse tanti chilometri per venire da me. Non ho mai saputo come mi avesse localizzata, visto che abitavamo indue città non molto vicine tra loro. Ho sempre supposto che ci sia stato lo zampino della mia amica, ma questo mio sospetto non è mai stato confermato. Edoardo, così si chiamava, spuntava magicamente vicino a casa mia e si approcciava a me con tale gentilezza che mai ebbi terrore di lui come invece accadeva con tutti gli altri uomini. Piano piano fece sì che mi fidassi e mi innamorassi perdutamente di lui. Per mesi non accennò lontanamente a volermi possedere fisicamente. Mi portava in giro cavallerescamente, dappertutto. Facemmo moltissimi chilometri insieme in quei mesi. Io mi sentivo protetta, al sicuro, cullata dai suoi rassicuranti piacevolissimi racconti.

– Tonia ascolta le parole di questa canzone! – mi diceva mentre lasciava scivolare i CD nel lettore della suaelegantissima auto nera. Io piangevo ad ascoltare le melodiche poesie di Renato Zero e di Lucio Battisti. Un giorno, sorprendendo per prima me stessa, gli svuotai addosso tutto il mio passato. Ci ritrovammo Piangevo io. Piangeva lui. Quell’abbraccio consacrò l’inizio della nostra storia. Edoardo è il padre di mia figlia Paola ed è stato l’uomo al quale devo la scoperta dell’AMORE, quello vero. Ha protetto e amato me e Paola fino a quando ha avuto vita. È morto dodici anni fa, quando Paola aveva meno di sei anni. Da quel momento è subentrato suo padre, che ancora oggi chiamo “Angelo di pace”, a prendersi cura di noi. Anche lui non c’è più da quattro anni. Ora il mio angelo è Gianni, il mio attuale dolcissimo compagno da cui ho ricevuto il dono di un altro figlio, il mio Francesco. Seguirò la sua crescita, coglierò ogni piccolo messaggio lanciato anche senza parole. Giocherò con lui e gli insegnerò a scrivere e a disegnare come ho fatto con Paola. Presto io e Gianni ci sposeremo. Paola sarà la mia damigella d’eccezione e Francesco il mio elegantissimo paggetto.

La mia vita si è tinta di tutti i colori. Partendo dal nero pece si è poi imbevuta di tutte le tonalità intermedie fino a lambire la gamma delle gradazioni tenui. Ora voglio avere lunga vita per godere della crescita felice dei miei figli.Scorgerò le loro gioie e ascolterò il loro muto grido. Madri e padri, seguite il mio esempio.

Senza esitare, ho scelto il contrappasso. For ever!

Mjaftoni Shkurti – Albania