Domande (tante) e risposte (poche) all’indomani delle ultime amministrative.

Domande (tante) e risposte (poche) all’indomani delle ultime amministrative.

 «M5S vince!», «Sì, ma il PD tiene testa e resta avanti».

«Il centrodestra è in liquefazione!», «Sì, ma quando va unito è ancora forte. Vedi Milano… ».

«I poli sono ormai tre!», «Sì, ma vedi un po’ che ti combina De Magistris a Napoli… ».

Le elezioni del “sì ma”: tutti hanno vinto, tutti hanno perso. In particolare, hanno perso certezza gli elettori, ha perso certezza il quadro politico. Ecco, se proprio si volesse indicare un vincitore “senza se e senza ma”, si direbbe che ha vinto l’incertezza.

Certo, i Cinquestelle non sono più una novità. Sono passati tre anni e quattro mesi dalle politiche del 2013 ed è ormai una realtà il fatto che siano tre gli schieramenti a contendersi un posto per il ballottaggio. Prima non era così: salvo “schegge impazzite” e salvo vittoria al primo turno di uno dei candidati, al ballottaggio ci andavano sistematicamente centrosinistra e centrodestra. Ora, la regola è cambiata: vedi Appendino contro Fassino, a Torino. Vedi soprattutto Raggi in enorme vantaggio su Giachetti a Roma (a proposito: ora, visto che il sindaco sarà uno dei due, manterranno la promessa di “collaborare” per legalizzare la marijuana?). Le schegge impazzite, se così vogliamo definire il sindaco uscente De Magistris, restano ancora, pur avendo meno spazio del passato per catturare il consenso degli elettori, e clamorosamente a Napoli restano fuori dal ballottaggio tanto il PD che M5S. Gli unici casi in cui al ballottaggio ci sarà il “classico” duello centrosinistra vs centrodestra restano, dunque, quelli di Milano (dove Sala e Parisi sono divisi da meno di un punto percentuale) e Bologna (dove i 17 punti percentuali di margine fanno istintivamente pensare a un Merola, PD, già vincitore sull’azzurro Borgonzoni).

Ma, si diceva, a vincere è la frammentazione, la sensazione che, se si votasse oggi per il rinnovo del Parlamento, potrebbe accadere tutto e il contrario di tutto. Il che non è detto che sia, di per sé, un male. In fondo, l’alternanza o la possibilità dell’alternanza sono il sale della democrazia. D’altra parte, rimane sullo sfondo la spiacevole sensazione di un Paese allo sbando, di un corpo di elettori che vota più “a naso”, se non per reti clientelari e localistiche, che non per un radicato orientamento ideologico. Il che fa il paio con lo sconfortante scenario di una classe politica che fa proposte più per catturare il consenso, costi quel che costi, tanto a promettere si fa presto, che non perché insegua una visione di società e di bene comune.

Se le cose stessero davvero così – e sembra proprio che stiano così – allora ci sarebbe da preoccuparsi. Perché un Paese che non ha visioni è privo di valori ed è pronto a (s)vendersi al miglior offerente. Anzi: al miglior promettente.

Del resto, si fa presto a sparlare dei politici: offrono a iosa, ogni giorno, argomenti e ragioni per criticarli. Ma non sono forse essi espressioni di chi li ha votati, cioè di noi stessi? Se vengono eletti pur non essendo credibili, perché crediamo loro, perché li votiamo? E come generare una nuova classe politica se non c’è un’idea di bene comune? Come attendersi una politica di larghe vedute e di cambiamenti strutturali, che necessitano di tempi medio-lunghi, se ci vendiamo per il solito piatto di lenticchie, “qui ed ora”?

Domande vecchie. Domande inevase. Se poi alle stesse provassimo a dare delle risposte, allora potremmo aggiungere che, purtroppo, i partiti, quelli tradizionali almeno, non ci sono più. Ciò che ne è rimasto è una sorta di riserva indiana, anzi una casta, che la gente avverte come lontana e del tutto disconnessa dal territorio. Si affermano, questo sì, formazioni politiche nuove: la Lega, vent’anni fa, M5S oggi, (e guarda caso Salvini per il ballottaggio, sia a Roma che a Torino, ha subito scelto i Cinquestelle…), ma solo in quanto partiti anti-sistema, anti-casta. È per loro che hanno votato e votano tanto gli operai ex-comunisti, ex di sinistra, quanto quelli ex democristiani, ex berlusconiani. Gli stessi operai che non si sentono garantiti neppure dai sindacati, avvitati su se stessi e interessati unicamente, in modo miope ed esclusivo, alla tutela dei piccoli o grandi privilegi già acquisiti.

Ci sarebbe da fare un’ultima osservazione: tutto il mondo è paese. Nel senso che quello che accade in Italia non accade solo in Italia, ma è un fenomeno ormai dilagante

nell’intero Occidente: dagli Stati Uniti, che assistono alla marcia trionfale di Trumph, all’Austria in cui c’è mancato poco che un nazista battesse un verde.

Se, dunque, un po’ dappertutto nei Paesi cosiddetti più avanzati, partiti e sindacati non sono più capaci di intercettare i bisogni della gente, da dove verranno le risposte in un mondo che corre veloce e disorientato?

Sapranno i giovani far meglio di noi?

C’è da sperarlo: perché, se non loro, chi?

Ci sarebbe da disperarsi: perché non facciamo nulla per aiutarli a essere migliori di noi.