Li chiamano trashed jeans, ossia “jeans da buttare”, ma a dispetto del nome si comprano e si pagano lautamente

Li chiamano trashed jeans, ossia “jeans da buttare”, ma a dispetto del nome si comprano e si pagano lautamente. E costano la salute dei “bambini blu” e quella del nostro ambiente.

I trashed jeans ovvero l’evoluzione estrema della moda dei jeans strappati, in voga con alterna fortuna ormai da decenni. Negli ultimi mesi hanno conosciuto un’enorme diffusione, soprattutto fra le donne: sono jeans completamente dilaniati in cui la porzione di gamba coperta dal tessuto finisce per essere inferiore a quella lasciata scoperta.

Secondo alcuni è un capo privo di senso, secondo altri è semplicemente brutto. Il problema vero, tuttavia, è che se prodotto in certe zone del mondo – come nella maggior parte dei casi – è moralmente sbagliato. Ciò non vale solo per i trashed jeans, ma per i jeans in generale, uno dei capi più usati al mondo.

Il 23 maggio è andata in onda su La7, durante la trasmissione Piazza Pulita, un’inchiesta di Valentina Pedrini sui cosiddetti “bambini blu”. La giornalista ha provato a raccontare cosa succede a Gaziantep, città nel sud della Turchia. Qui, bambini siriani scappati dalla guerra vengono impiegati nella colorazione e lavorazione dei jeans, finendo per avere, oltre a problemi fisici non indifferenti, mani e volti perennemente macchiati di blu.

Sono bimbi dai 7 ai 13 anni che non vanno più a scuola e lavorano dalle 7 del mattino alle 8 della sera per 5 lire turche al giorno (1,5 euro). L’industria tessile contribuisce per il 7% al pil turco e l’Europa è il secondo compratore di prodotti da tale Paese. È chiaro quindi che molti di quei capi sono destinati al nostro mercato.

Le questioni lasciate aperte dalla lavorazione dei jeans, peraltro, vanno ben oltre i confini turchi. Come si spiega in Effetto Denim: un mondo in blu, libro edito da Terre di Mezzo, la produzione tessile dei jeans è una delle più inquinanti in assoluto. Il tessuto è infatti composto da fili di catena tinti in blu indaco e fili di trama lasciati a colorazione naturale. I primi tuttavia non vengono colorati completamente, ma solo all’esterno. Dentro vengono lasciati grezzi, è questo che poi permette loro d’invecchiare in maniera naturale senza che le fibre perdano consistenza.

Per ottenere questa colorazione il processo è unico nel suo genere: i fili passano in una vasca di colore e poi vengono lasciati asciugare all’aria. Passano in una vasca successiva e di nuovo asciugano. Così via dalle 4 alle 24 volte, in base alla tonalità che si desidera. Si chiama tintura “per ossidazione”. Questa pratica necessita infine che l’acqua venga depurata e che la concentrazione di tintura venga costantemente misurata. Tutto ciò fa lievitare i costi, così che si finisce per delocalizzare la produzione in Paesi dove acqua e tinte hanno prezzi ridotti e soprattutto le leggi di tutela ambientale sono inesistenti.

Nel distretto cinese di Xin Tang, 15 mila laboratori producono ogni anno 200 milioni di paia di jeans, le norme di depurazione delle acque sono costantemente eluse, ecco che i fiumi della regione hanno assunto un’innaturale colorazione azzurra, mentre gli abitanti accusano sempre più problemi respiratori, eruzioni cutanee e malformazioni nei nuovi nati. La stessa cosa succede in Messico.

Una volta prodotto il jeans, il lavoro è tutt’altro che finito. Il capo appena assemblato risulta infatti ancora molto rigido. Per ammorbidirlo e dargli un aspetto vendibile sui mercati internazionali si procede allora, oltre a decine di lavaggi, con lo stone washed e il sandblasting. Il primo consiste in una serie di passaggi, chimici e meccanici, utili a dare al tessuto un aspetto vissuto. Dunque decolorazione, ricolorazione, trattamenti con amilase, cellulase, permanganato di potassio, oltre al raschiamento con pietra pomice e carta vetrata.

Il secondo è invece un sistema per cui si sparano con un compressore potenti spruzzi di sabbia sui jeans stessi, per ottenere l’effetto sabbiato. I lavoratori in questo caso per 10 o 12 ore al giorno finiscono per respirare polvere di silicio. È così in Turchia, dove la tecnica del sandblasting, pur messa al bando nel 2009, continua ad essere usata e causa la morte dell’80% dei lavoratori che ne hanno a che fare. Il problema è tanto reale che Levi’s and H&M hanno deciso di eliminare la sabbiatura dalle loro produzioni.

È stato calcolato che per produrre e dare un’aria “vissuta” a un paio di jeans servono 13 mila litri d’acqua. Se si tiene conto che negli Usa se ne comprano 450 milioni all’anno, che in Messico se ne producono 6 milioni alla settimana e che del modello Levi’s 501, il più famoso, se ne vendono 100 milioni all’anno, si capisce il costo ambientale che una produzione del genere comporta. Un motivo in più per chiedersi, di fronte a una vetrina, guardando trashed jeans o cose simili: “C’è bisogno?”.