«La gioia è la più semplice forma di gratitudine»
(Karl Barth)
«Ragazzi, sapete che penso? Penso che siamo capaci di prendere un “9 meno” e non gioire del 9 perché è solo il “meno” che vediamo…»: dissi una cosa del genere, tempo fa, in una lezione ai miei alunni, una di quelle lezioni che tanto mi mancano, di quelle in cui si partiva dal verso di un poeta per spaziare in campi a me stesso ignoti e imprevisti, persino inimmaginabili, sempre nel tentativo di arrivare alla vita, di congiungere letteratura e vita, poesia e storia, ideale e attuale.
Ora che l’estate volge al termine, ora che gli spauracchi del nuovo anno scolastico – con i numeri del Covid tornati pericolosamente a crescere – si affacciano prepotenti, mi sono tornate alla mente queste parole, insieme alla nostalgia per i miei studenti…
E così ho pensato: qual è il “meno” che può insidiare la mia gioia di vivere? Qual è il “più” che tu ed io rischiamo di non apprezzare?
Sono finite le vacanze: vero, ma c’è gente che non ci è mai andata. Ho paura di ammalarmi: giusto, d’altra parte c’è gente che è morta e muore. Temo di dover tornare allo smart working: epperò, c’è gente che il lavoro l’ha definitivamente perso. Temo di non amare ed essere amato abbastanza: e questo è forse l’unico timore legittimo e ben comprensibile, eppure basterebbe non chiudere gli occhi per apprezzare ciò che ci cresce davanti…
Sì, forse mi sto limitando a proporre la “morale” di mia nonna, che mi diceva di considerare sempre chi è rimasto dietro di me, sopravanzato di brutto nella lotta per la sopravvivenza. In realtà, vorrei provare a suggerirti dell’altro. Vorrei che tu ed io non perdessimo la gioia di vivere, la gratitudine per essere qui, la pienezza dell’attimo, l’essere colmi, incinti di vita e di gratitudine.
Caro lettore, adorata lettrice,
mentre ti scrivo, ammiro davanti a me un panorama immenso, ma è il nostro cuore il panorama più grande. Siamo portatori di “spezzoni di mistero”, come amava ripetere don Tonino Bello, il che implica, sì, il concetto di essere frantumati, ma alla maniera di un pane fragrante condiviso sulla tavola: se non viene spezzato, e poi masticato, non serve a nutrire.
Ecco, se provassimo ad alimentarci di ogni respiro, a benedire il tempo che ci forgia, forse sarebbe più semplice essere in pace con l’universo: e con se stessi. Forse, a quel punto, nostro malgrado e persino inconsapevolmente, potremmo diventare dei “pacificatori”, coloro che fanno e portano la pace. Di quelli che partono per restare e restano partendo.
Ad un’adorata lettrice, la cui profonda sofferenza ho scoperto solo attraverso il racconto dei suoi cari, perché lei mai ne aveva fatto motto, mai se ne era lamentata, ho scritto: «Tuo papà mi ha accennato del tuo calvario…». E lei: «Ognuno ha il proprio, io mi sento una privilegiata».
Ecco! Il “9 meno” che diventa lode e benedizione. Con tanto di bacio accademico!
Meister Eckhart: «Se la sola preghiera che dirai mai nella tua intera vita è “grazie”, quella sarà sufficiente».
Reiner Maria Rilke:
«Dio parla a ciascuno solamente prima ch’egli sia creato,
poi va con lui silente nella notte.
Ma le parole, quelle prima dell’inizio di ciascuno,
le parole, come nubi, sono queste:
Sospinto dal tuo intendere,
va’ fino al limite del tuo anelare;
dai a me una veste.
Dietro alle cose come incendio, fatti grande,
sicché le loro ombre, diffuse,
coprano sempre me completamente.
Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore.
Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano.
Non lasciare che da me tu sia diviso.
Vicina è la terra,
che vita è chiamata.
La riconoscerai
dalla sua solennità.
A me da’ la tua mano».