
Ogni lamento è un clamentum
“Non è sacro il portavoce del lamento”: Franco Arminio ha ragione. No, non è sacro chi si lamenta sempre. Non è sacro perché spesso chi si lamenta di qualcosa finisce col procurare agli altri la stessa sofferenza per cui piange. La lamentela, infatti, è indice di una ferita ancora aperta, purulenta, infettiva e ciò è estremamente pericoloso, oltre che diverso dalla nobile arte di condividere il dolore.
Ci sono vittime che fanno vittime, diventano cioè carnefici senza nemmeno rendersene conto. Non è un caso che la parola “lamento” è un “clamentum”, un “grido” che ha perso la “c”, ma conserva tutta la starnazzante, patologica rabbia con cui spesso la persona lamentosa si approccia agli altri per sfogarsi o, peggio, solo per sfogare. Del resto, conosce un solo modello di relazione: quello in cui qualcuno, in un modo o nell’altro, deve restare sottomesso, quasi per dargli il cambio e permettergli di passare dalla parte dei forti.
È la storia di tante ferite non elaborate, di vite consumate in un estenuante lamentarsi, in cui l’altro diventa vittima della propria personale frustrazione. Circoli viziosi di rabbia e sangue. Sacrifici insensati. Del resto, chi si lamenta spesso tiene legate a sé le proprie vittime con il ricatto dei “sacrifici che ha dovuto e deve sostenere”, senza sapere che, quando c’è di mezzo questa parola, qualcuno viene sempre immolato ingiustamente.
Certo, fare qualcosa per gli altri, donarsi anche quando costa tempo ed energia, resta la forma più bella, urgente e vera dell’amore, che non è fatto solo di bei pensieri e di purissime intenzioni, ma di gesti tangibili di cura. Il punto, allora, è questo: posso sacrificare gli altri, oppure posso sacrificarmi per gli altri. Nel primo caso starò semplicemente “facendo cose sacre”, cose dovute, cose che mi spettano, che mi impongono un clichè, una morale, un’idea di relazione in cui occorre soffrire fino a far soffrire. Nel secondo caso, invece, starò “facendo sacre le cose”, ossia starò vivendo il quotidiano senza l’assillo della ferita che mi perseguita, ma con il desiderio che gli altri abbiano più di quanto a me è toccato.
È il coraggio di interrompere una spirale di inconsapevoli vendette. È la forza di passare dalla lamentela alla condivisione. È la sfida di rinunciare a qualsiasi dolorismo. È la scelta di Batman, che trasforma il dolore per la morte violenta del padre in una missione, quella di aiutare gli altri, soccorrerli, salvarli. Diversamente dal suo antagonista Joker, l’abusato che diventa abusatore, la vittima che diventa carnefice.
È una questione di scelte, che talora passano per spicciole abitudini. Certo è che rifiutarsi di essere lo specchio di ciò che si è subito e trasformarsi nel riflesso di quello di cui si è stati privati resta uno dei più grandi, autentici miracoli della vita, senza che la parola induca ad escludere la ferrea, coraggiosa volontà di mettersi in gioco per rinascere e far rinascere, evitando che il dolore diventi, come scrive sempre Arminio, “il mattone del suo muro”.
Complimenti!
Grazie Michela. I tuoi articoli sono sempre spunti di riflessione…
Grazie a te, di cuore!