«Di bere e di mangiar n’accende cura 
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo 
che si distende su per sua verdura»

(Purgatorio XXIII, vv.67-69)

Siamo in pieno tempo di festività natalizie e il cammino che ripercorriamo con Dante e Virgilio ci fa imbattere, caso curioso, con Forese Donati che, nella sesta cornice del Purgatorio, sconta il peccato di gola.

Forese e i suoi compagni di pena sono così magri che la pelle aderisce alle loro ossa e che le arcate sopraccigliari, insieme al setto nasale e all’incavo nero degli occhi, sembrano formare la parola OMO. La loro pena è evidentemente per contrappasso: tanto hanno ceduto al peccato di gola quanto ora sono divorati dalla fame e sete generate dal profumo di un albero e dallo sgorgare di una sorgente.

Vien troppo facile pensare che un analogo destino dovrebbe essere riservato a tanti di noi del pasciuto Occidente: e non solo a Natale.

Mi astengo.

Forese riconosce per primo l’amico Dante – celebre la loro Tenzone a tema comico realistico. Tra l’altro, Dante, nel sonetto Chi udisse tossir la malfatata, aveva dipinto Nella, la moglie di Forese, come sola nel suo letto, e perciò raffreddata, mentre il marito si dedicava a chissà quali altre relazioni. Ora, invece, quasi a mo’ di risarcimento, si dipinge Nella come moglie devota e fedele, tanto che con il suo il pianto e le sue preghiere ha ottenuto a Forese uno “sconto di pena”: grazie a lei, Forese, a soli cinque anni dalla morte, è già giunto quasi all’apice del suo cammino di purificazione.

Non analoga cortesia le parole di Forese riserveranno alle altre «sfacciate» (v.101) donne fiorentine, contro le quali sferra una delle apostrofi più misogine che si conoscano, preannunciando loro un non meglio definito imminente castigo e un esplicito divieto di «andar mostrando con le poppe il petto» (v.102).

Fresco reo di “parricidio”, non attaccherò, di nuovo, a viso aperto padre Dante. Di certo, anche la misoginia è erba dura a morire. Di certo, le parole di Forese sono scelte da Dante autore e sono da ricondurre nell’alveo degli attacchi che la Divina Commedia  continuamente ripropone a danno della politica fiorentina, dalla quale l’exul immeritus si era visto escluso, e dei compiacenti costumi che pure, sino a poco tempo prima, gli stessi amici Forese e Dante avevano beatamente praticato.

Della serie: fate quel che dico, ma non fate quel che faccio. O anche: non fate ciò che non posso più fare.

Sia detto expressis verbis: la morale dei moralisti non ha mai convinto nessuno. Il bene si fa e non si dice. E se si predica, specie se si ha il dovere di predicarlo – penso a quanti a vario titolo svolgono il delicato ruolo di educatori – richiede autenticità: il che non vuol dire infallibilità. Vuol dire capacità di mettersi a nudo, pur di comunicare “una parola di verità” (Gc 1, 18). Beato chi ci riesce!

Thomas Merton: «La verità non emergerà mai chiaramente finché saremo convinti del fatto che ciascuno di noi, individualmente, è il centro dell’universo».

William Blake: «Una verità detta con cattiva intenzione batte tutte le bugie che si possono inventare».

Leonardo Sciascia: «Tutti i nodi vengono al pettine: quando c’è il pettine».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...