
«Per quello che Cliò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta»
(Purgatorio XXII, vv.58-60)
Freud ce lo insegna. Arriva il momento in cui anche il figlio più devoto deve, sia pur simbolicamente, “uccidere” il padre. Ne va della sua crescita, del suo diventare un uomo adulto.
Ora, non so se io meriti l’appellativo di “figlio devoto” di padre Dante – a dire il vero, tutto di me mi fa presumere il contrario – né saprei dire che c’entri con la psicoanalisi quanto mi accingo a scrivere, ma di sicuro, se c’è un momento in cui debba prendere le distanze dall’autore della Commedia, quel momento è arrivato col canto XXII del Purgatorio.
Ci accingiamo a salire nella sesta cornice, l’angelo della giustizia cancella la quinta P dalla fronte di Dante e indica ai viandanti le scale per l’ascesa. Nel frattempo Virgilio e Stazio fraternizzano.
Prima, Virgilio chiede come mai Stazio sia punito tra gli avari e questi, gentile, precisa che nella medesima cornice ci si purifica da due peccati opposti: avarizia e prodigalità e proprio da quest’ultima egli si era tardivamente emendato giustappunto per l’impulso dei versi di Virgilio.
A questo punto, Virgilio alza il tiro e gli chiede come mai egli sia tra i salvati visto che, dalle sue opere, non si evince che egli fosse cristiano.
La risposta di Stazio, con quanto seguirà, è la ragione del mio “parricidio”.
Il poeta spiega di essersi convertito proprio grazie alla lettura della ben nota IV Egloga delle Bucoliche di Virgilio, la cui dedica, in verità, era pensata per il nascituro figlio del console Asinio Pollione, ma che i commentatori cristiani avevano a lungo interpretato in chiave profetica, quasi si trattasse di un annuncio della imminente nascita di Cristo.
Ora, a parte il fatto che questa interpretazione è del tutto infondata, è una balla bella e buona, una pia aspirazione e niente più, sta di fatto che Stazio aggiunge di essersi convertito al cristianesimo ancor prima di mettere mano alla stesura delle sue opere, ma che questo non si evince dai suoi versi perché scelse di vivere un cristianesimo clandestino, per paura delle persecuzioni ai tempi di Domiziano.
Lo confessa candidamente: «per paura chiuso cristian fu’mi» (v. 90).
Nessun problema. In effetti, chi non ha coraggio, non se lo può dare, scrive Manzoni del suo don Abbondio. E d’altronde, chi sono io per giudicare la pusillanimità di Stazio?
Dunque, non è questo il punto.
Il punto del contendere è un altro: è quando Dante fa dire a Virgilio:
«Per quello che Cliò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta»
(Purgatorio XXII, vv.58-60).
Tradotto: per quanto la Musa Clio risuoni nei tuoi versi non pare che quella fede, senza la quale le buone opere non bastano, avesse fatto di te un fedele.
Mi piacerebbe rispondere a Dante con la lettera di san Giacomo (è breve: ne raccomando la lettura al lettore curioso…) o con numerosi altri passi biblici. Mi farebbe comodo essere spalleggiato nientemeno che da quella che per i credenti – Dante è un credente – è Parola di Dio, salvo dimenticarsene quando serve.
Invece voglio essere così presuntuoso da uccidere mio padre con le mie sole deboli forze e dirgli:
Caro papà,
ti sei sbagliato, ma di brutto.
Sei in errore non solo nel propinarci un ragionamento contorto che glorifica la vigliaccheria di Stazio e punisce la lealtà di Virgilio.
Sei in errore perché sbatti nel limbo (che, detto fra noi, manco per la teologia né per il Magistero esiste…) nomi immortali come Omero, Euripide, Antifonte, Simonide di Ceo, Agatone e poi ancora Terenzio, Cecilio Stazio, Plauto, Varrone, Persio.
Metti all’inferno persino un’eroina del mito come Antigone!
Non te lo posso perdonare, caro padre Dante.
O meglio: ti perdono, perché le tue fisime sono figlie del tuo tempo, ma ti smentisco.
Dio, se c’è, è Amore. Punto. Dio è Bene. E il Bene, solo il Bene, basta. Basta sempre. Punto.
Visto che concludi il XXII canto con esempi di temperanza, per una volta, avresti potuto astenerti da fare nomi che io non lo so se stiano in paradiso o da qualche altra parte, ma che di certo non sono da meno di Stazio. Che, detto tra noi, non si sa se mai fu veramente cristiano.
Ti dirò di più. A cominciare dal sottoscritto, non saprei neppure affermare se tanti, che pure palesemente si dicono “fedeli”, lo siano per davvero e più di quanti si considerano o sono considerati “essere fuori” della Chiesa (detto tra noi: ai tuoi tempi si faceva un uso davvero abominevole dell’extra Ecclesiam nulla salus…).
Chissà, potrebbe essere che gli “infedeli” siano molto più “dentro” di me e di te, perché più e meglio di te e me fanno il bene e sono nel Bene.
De hoc satis.
Ciao, papà.
Karl Rahner: «“Cristianesimo anonimo” significa questo: chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini. In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo».