“I bambini vengono educati da quello che gli adulti sono e non dai loro discorsi”
(CARL GUSTAV JUNG)

L’educazione è una bella cosa. E resta bella anche se cambiano i modi di fare, se diminuisce la riverenza e aumenta la confidenza. Anzi, che la riverenza diminuisca è un buon segno: riverire significa rispettare qualcuno solo perché più alto e potente, dunque ricadere in una spirale verticistica, nella quale il potere detta le regole della relazione e conta solo arrivare in alto. La cultura maschilista e patriarcale, ad esempio, funziona così: l’autorità del maschio e del padre detta i criteri del rispetto, per cui tutti i doveri, l’educazione e le buone maniere spettano solo ai sottoposti. E questi trascorrono tutta la vita a scalare le vette dell’autoritarismo, per conquistare finalmente la beneamata posizione di chi può fare quello che vuole e reinaugurare il circolo vizioso.

Che l’autorità non debba essere corretta, ripresa, affrontata, spronata alla responsabilità, esortata alla coerenza tra ciò che predica e ciò che fa, è convinzione di molti ancora. Mi è capitato ultimamente di interfacciarmi con i grossolani errori della più pura maleducazione da parte di coloro che si considerano autorevoli solo perché maschi adulti e procreatori. E mi sono scontrata con la loro resistenza ad accettare che un simile modello non esiste più e che ognuno, a prescindere dal sesso, dall’età, dal grado di parentela e dallo status, ha sia il diritto di reclamare un minimo sindacale di educazione, sia il dovere di essere educato in primis.

Ma l’educazione è un’arte e un’arte maieutica, dunque non è per tutti. È per chi ama senza sforzo, ma sempre si sforza di amare. È per chi sa ex-ducere, cioè condurre qualcosa fuori perché ha molto dentro. È per chi partorisce perché si è donato, aperto, lasciato fecondare dai semi di bene sparsi in questo mondo. Non bastano il rispetto del passato, la riverenza agli avi, il rimpianto dei buoni valori, l’inneggiare a una società più giusta, il denunciare le mancanze della politica per essere certi di abitare i confini della buona educazione. Non basta nemmeno un titolo di studio, né il vivo interesse per iniziative culturali di tutto rispetto.

Allora non mi stupisco che gli esponenti delle categorie sopracitate, mentre denunciano la misteriosa scomparsa delle buone maniere, manchino drammaticamente delle basi della buona educazione: parlano senza freni, sbraitano appena chiedi un confronto, non salutano, cambiano marciapiede se ti vedono da lontano, ti evitano se hai avuto l’ardire di correggerli, non ti offrono nemmeno cordoglio per un lutto perché non appartieni alla schiera dei loro sostenitori, non rispondono all’invito di un tuo evento importante, anzi lo ignorano costringendoti a rincorrerli per capire se in quella circostanza sarai degnato della loro presenza. Per non parlare dell’abitudine diffusa a trattare male camerieri, addetti alle pulizie, centralinisti. Cose piccole e tremendamente ingombranti, segno di un vuoto interiore spaventoso. Perché se fossero pieni, saprebbero tirar fuori qualcosa dal loro sé. E invece nessuno può dare quello che non ha.

Il maleducato, insomma, è essenzialmente un misero. E un infelice, spesso inconsapevole. Dev’essere triste, infatti, non riuscire a ex-ducere nulla da sé. Insomma, al maleducato “non resta che piangere”.