Couple watching a movie on a tv screen

«In America è realmente il popolo che comanda e, benché la forma del governo sia rappresentativa, è ovvio che le opinioni, i pregiudizi  gli interessi e anche le passioni del popolo non possono trovare ostacoli duraturi che impediscano loro di manifestarsi nella direzione quotidiana della società.

(Alexis de Tocqueville, da La democrazia in America, 1835-40).

«Quando un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni affare pubblico in vaudeville, allora la nazione è in pericolo»

(Neil Postman, da Divertirsi da morire, 1985)

L’altra volta dicevamo che la democrazia, nel senso più nobile del termine,  si sta estinguendo per il disamore del popolo nei confronti della partecipazione politica.

Ma quando è accaduto questo?

Anzitutto,  senza voler annoiare snocciolando numeri e percentuali relativi ad altri tipi di esercizio del voto (elezioni amministrative, regionali, europee, referendarie), in cui l’oscillante partecipazione è più marcata, le elezioni politiche, per quanto le più frequentate dai cittadini-elettori, tuttavia, dal 1948, fino  alle ultime del 2022, hanno chiaramente manifestato un progressivo disamore per la partecipazione al voto.

Dal 1948 al 1979 più del 90% degli elettori si è recata alle urne.

Dal 1983 al 2008 si è scesi  sotto la soglia “psicologica” del 90%.

Nel 2013 ha votato il 75% dei maggiorenni e nel 2018 il 73%.

Alle ultime elezioni del 2022, l’affluenza è scesa ancora al 63,9%, circa, il dato più basso dell’intera storia repubblicana.

Ora, va detto che, in generale, specie in Paesi quali il Regno Unito o gli stessi USA, percentuali basse  vengono interpretate dagli studiosi come una sorta di affermazione della sfera privata su quella pubblica, determinata dalla prevalenza della sfera economica (“non ho tempo da perdere, devo gestire i miei affari”, in questi che sono Paesi capitalisti!) e della fiducia che gli astenuti nutrono nei confronti  delle decisioni dei propri concittadini che si recano ai seggi, quasi delegando loro una scelta che comunque andrà bene a tutti, per effetto  dello spirito di “comunità” ivi allignante.

Lo stesso ragionamento si può applicare al Belpaese?

Probabilmente no, non tanto per la questione della prevalenza dell’interesse economico, perché anche l’Italia è un Paese capitalista, sia pure di un capitalismo familista e amorale, quanto perché gli italiani sono tendenzialmente anarcoidi, ciascuno assorbito dal suo “particulare”, e piuttosto malfidenti, senza uno spiccato senso di appartenenza alla “comunità”.

Gli italiani che non vanno a votare sono convinti che non serva a niente poiché “tanto hanno deciso tutto loro”, ovvero la classe politica.

Ma cosa ha portato a questo convincimento?

Premesso che chi scrive lo ritiene “qualunquista” e comunque sbagliato, non tanto in sé , quanto piuttosto nel presupposto che, se non vai a votare, legittimi la condotta della classe politica, tuttavia tentiamo di scoprirne la genesi.

Il pessimismo degli astenuti si può datare a partire dall’avvento della televisione, come fenomeno di massa?

Nel saggio Divertirsi da morire, pubblicato nel 1985 negli USA, ma da noi solo nel 2021, l’autore, Neil Postman, denuncia la primazia della TV,  quale “strumento culturale”, che si è affermata a sfavore dei libri e della scuola,  facendo precipitare cultura e senso critico delle persone. Ne è conseguito un imbarbarimento del “discorso pubblico”, ridotto a mero spettacolo, senza contenuti, senza analisi, ma mercanzia da pubblicizzare.

L’avvento della televisione, in pratica, ha costruito i presupposti di una sorta di distopia huxeleiana, in cui, come ne Il nuovo mondo, le persone sono distratte dal divertimento che la televisione garantisce, per cui tutto è intrattenimento, superficialità, disimpegno. La partecipazione  sociale e il “discorso pubblico” non sono impediti, come nella società orwelliana, da un controllo occhiuto che reprime violentemente il dissenso, ma negletti: le persone vogliono  solo divertirsi.

E sicuramente questo è stato il caso degli USA, in cui la televisione, già a far data dagli anni ’40 del secolo scorso, si è affermata, acquisendo il primato tra le modalità di intrattenimento.

Qui, in Italia, ha cominciato a trasmettere negli anni ’50 ed indubbiamente le va riconosciuto di aver raggiunto un risultato socialmente rilevante che neanche la scuola era stata in grado di realizzare: l’unificazione linguistica della nazione.

Cionondimeno, con l’affermarsi della televisione commerciale (e siamo negli anni ’80), anche da noi la televisione è divenuta strumento di addomesticamento al divertimento di un intero popolo. Come nella distopia huxleiana.

Gli anni ’80 sono quelli in cui comincia il lento declino dell’impegno politico e del discorso pubblico, in cui comincia a scendere la percentuale degli elettori che si recano alle urne, i comizi cominciano ad essere disertati, tant’è che siamo arrivati al punto che oggi essi si tengono in piccoli luoghi chiusi e non più nelle piazze.

La televisione commerciale, – questo enorme contenitore di pubblicità interrotto dai programmi,- ci illude di essere gratuita e fa molti ascolti, favorita da leggi che hanno consentito di realizzare enormi profitti.

La televisione ha imbarbarito la vita politica con l’ascesa al potere di Berlusconi e dei suoi “giannizzeri e sodali” e ha imbastardito la “moralità” della vita pubblica.

Oggi, questa sorta di inarrestabile caduta agli inferi continua, poiché il discorso che si è fatto sulla televisione può essere pari pari adattato ai social media che sono divenuti i nuovi strumenti “culturali” anche, purtroppo, della scuola.

La televisione ha dato alla politica i suoi leader (come Berlusconi o Zelensky). Quanto dobbiamo aspettare  che star delle varie piattaforme social diventino, malauguratamente,  i nuovi leader politici in un prossimo futuro?


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