«La disponibilità al dono di sé non può essere sfruttata o strumentalizzata per logiche che non siano quelle del Vangelo»

“Importante un chiarimento sulla nostra identità. Noi Apostole della Vita Interiore non siamo “suore” e non ci sentiamo tali, se con questo termine (effettivamente esposto ad ambiguità) intendiamo membri di una congregazione religiosa (con tutto un universo di riferimento, anche giuridico). Noi siamo donne consacrate, cioè dedicate a Dio e ai fratelli attraverso la professione dei consigli evangelici (castità, povertà, obbedienza). La nostra forma di vita, la nostra struttura di organizzazione sono però più semplici, in risposta alle esigenze di un carisma fondato sulla vita interiore, sull’evangelizzazione, sulla relazione personale. Siamo riconosciute dalla Diocesi di Roma come Associazione Privata di fedeli”.

Esordisce così Sabina Nicolini per la nostra intervista. Odysseo l’ha conosciuta in occasione della presentazione del libro Il disertore. Lectio divina sul libro di Giona, che ha scritto a quattro mani con don Fabio Bartoli; due voci, una femminile e una maschile, due punti di vista complementari per spiegare il senso della chiamata del profeta Giona. Abbiamo subito pensato a lei per la nostra inchiesta sulla presenza femminile nella Chiesa, perché Dio l’ha inseguita, ancora giovanissima, fin nel ventre della balena, proprio come ha fatto con Giona.

Donne, chiesa, mondo”, l’inserto mensile dell’Osservatore romano, ha denunciato il maschilismo imperante nella Chiesa che vede le suore come presenze quasi invisibili, e sfruttate come domestiche a tempo pieno nelle abitazioni degli alti prelati, prive di un contratto o di convenzioni nel caso in cui lavorino presso scuole, ospedali o parrocchie. Tu che hai forse una posizione privilegiata perché sei un po’ dentro e un po’ fuori la Chiesa, condividi questa denuncia?

È vero che ci sentiamo “un po’ dentro e un po’ fuori”: viviamo una forte collaborazione con realtà ecclesiali, che ci fa conoscere “da dentro” la realtà, ma al tempo stesso, proprio per il nostro carisma specifico, senza una posizione lavorativa, e al di fuori di ogni gestione di strutture. Considero questa una posizione privilegiata, appunto, perché ci permette di essere nella Chiesa, arricchendoci dei suoi frutti e della sua comunione e offrendo il nostro contributo, ma senza dipendere da logiche di efficienza lavorativa ed economica. La denuncia ci sembra condivisibile, però, per molte donne, religiose e non, che in alcune strutture ecclesiali, comprese le loro stesse congregazioni religiose, vivono condizioni di sfruttamento. Allargherei anche la prospettiva, considerando una mentalità ancora diffusa che toglie alla donna, proprio a motivo della sua consacrazione, la dignità e la responsabilità che promanano dalla sua stessa unicità, personalità, dalle sue doti che meritano di essere messe a frutto con un’adeguata formazione. Può accadere che la religiosa diventi membro di un sistema nel quale l’obbedienza può tendere alla sua spersonalizzazione, a favore di un servizio da rendere come risposta alla propria vocazione. Intendiamoci: l’equilibrio è delicato. È vero che la consacrazione religiosa, come specifico compimento della vocazione battesimale, si realizza nella libera donazione della propria persona, in una scandalosa inversione di marcia dalla tendenza naturale all’autoconservazione e all’autodeterminazione, ma questo dono, secondo il Vangelo, non mortifica la persona, non la annulla, non la rende schiava, ma la mette in condizione di amare, sperimentando vita e fecondità. Molte religiose danno grande testimonianza a questa verità! La disponibilità al dono di sé, però, non può essere sfruttata o strumentalizzata per logiche che non siano quelle del Vangelo ma dell’interesse umano, anche se mascherato di Vangelo. La denuncia è condivisibile e la nostra stessa esistenza lo afferma: il nostro fondatore, che è un sacerdote diocesano di Roma, ha ideato questa forma di consacrazione femminile, in cui hanno spazio lo studio filosofico-teologico che è parte integrante della formazione per ogni membro, la valorizzazione delle doti personali, e il cui sostentamento economico è affidato alla Provvidenza, anche a partire dalla constatazione della sofferenza di tante religiose, della necessità di una mentalità diversa, e del grande potenziale che la donna può invece offrire nell’apostolato.

Pensi che questa polemica possa essere il frutto di una strumentalizzazione politica?

Non posso giudicare l’intenzione della polemica, senza conoscerne tanti dati. La denuncia però si basa su situazioni oggettive e su una mentalità in molti casi radicata nella stessa formazione religiosa, così da non poter essere chiamata per nome neppure da chi la subisce. In diverse occasioni lo stesso Papa Francesco ha voluto portare in luce situazioni di servizio che diventa servitù, denunciando chiaramente il persistere di una certa mentalità maschilista e una scarsa riflessione, oltre che valorizzazione, del ruolo della donna nella Chiesa. Importante ricordare che anche su questo tema papa Francesco va letto in continuità con il Magistero precedente: imprescindibile resta la Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II sul ruolo e la dignità della donna nella società e nella Chiesa.

Cosa ti aspettavi quando ti sei sentita “provocata” e hai scelto di rispondere a questa provocazione entrando nella tua comunità? Quale realtà ti sei invece trovata di fronte?

Quando la pro-vocazione viene da Dio, attraverso la sua Parola ascoltata nella Chiesa, spiazza sempre, perché è creativa senza distruggere l’esistente, e rilancia tutto ciò che è umano per renderlo ancora più umano. Io ho detto sì a 16 anni: senza “fughe-da”, senza rivendicazioni, attratta da Chi aveva dato tutto se stesso per me, e con il desiderio di vivere come Lui. Sicuramente con una buona dose di idealismo e di perfezionismo. Oggi, dopo vent’anni, sono grata del crollo dei miti di perfezione, miei e altrui. Sono grata del realismo che sto imparando, della complessità della vita che sto accogliendo, delle responsabilità che la mia vocazione non mi sta evitando. Entrando nella mia comunità non sono entrata in una bolla di sapone, in un mondo autoreferenziale o parallelo rispetto al reale. Con tutta la sua bellezza e i suoi limiti, è il luogo dove posso quotidianamente scommettere che si possa vivere il Vangelo, nella vita comune, nell’annuncio, nella carità. E questo è ciò che conta.

Qualche anno fa alcune religiose hanno sottoscritto il “Manifesto delle donne della Chiesa”. Lo conosci? Lo condividi? Sarebbe opportuno aggiungere qualche punto?

Ho avuto modo di leggere un “Manifesto di donne per la Chiesa” pubblicato su il 6 febbraio 2018, a firma di una trentina di donne impegnate nella Chiesa (non religiose, o non esclusivamente). Mi sembra che questa istanza nasca da una lettura condivisibile della realtà, ma non ne condivido del tutto le prospettive. La stessa natura di “manifesto” rischia di far scivolare la questione, che a mio avviso non tocca oggi soltanto una certa mentalità ecclesiale, ma l’antropologia del maschile e del femminile, su una rivendicazione non priva di ingenuità e idealismo. La richiesta, ad esempio, di sano rapporto con il femminile e di maturità psicologica da parte dei presbiteri, non può risolversi in un punto all’ordine del giorno. Qui si cela una fragilità che, io credo, è cifra di un’epoca e di una società, e i cui sintomi non sono visibili solo nelle strutture ecclesiali, ma ancor prima nella famiglia, nell’educazione, nella coppia. La valorizzazione del femminile, per non ridursi a slogan, non può che giungere da una profonda e coraggiosa riscoperta dell’antropologia, in cui maschile e femminile sono accolti come identità donata e al tempo stesso da portare a compimento. E di questa riscoperta la donna è corresponsabile! Anche i criteri di “servizio al femminile”, declinati con i termini di “assertività, libertà, alleanza femminile” mi sembrano frutto di una rivendicazione più che del desiderio di donare la propria femminilità, feconda di ben altri elementi: accoglienza, interiorizzazione, visione, coraggio, cura, protezione. Sono elementi che non si possono escludere solo per il timore che vengano recepiti male. Non si può evitare il rischio, nel dono di sé! Inequivocabile e assolutamente non condivisibile l’istanza “seria e grande” di forme di presbiterato femminile e servizio ministeriale anche sacramentale: in questo vedo una forma di strumentalizzazione dell’auspicato dialogo con la donna nella Chiesa.

Papa Francesco ha manifestato preoccupazione per il persistere di una forte mentalità maschilista all’interno della Chiesa. Pensi che riuscirà a dare seguito a questa sua preoccupazione con qualche azione concreta?

A livello di azioni concrete, Papa Francesco ci ha già sorpreso con scelte inedite, e soprattutto con una volontà di incontro e di ascolto delle persone e delle situazioni “periferiche”. La donna si trova in effetti spesso in queste periferie ecclesiali. Non credo però che siano singole azioni concrete a darci il reale polso della situazione. Penso che Papa Francesco per primo si renda conto che per convertire ed evangelizzare mentalità e cultura di voglia molto tempo. Lui ci insegna che più che di “occupare spazi” (e vorrei ricordare questo anche alle donne immediatamente preoccupate di veder loro riconosciuti certi spazi di potere) si tratta di “avviare processi”. Non a caso Papa Francesco parte dalla formazione, dal discernimento. In questo caso, processi di conoscenza reciproca, di ascolto, di confronto sui temi grandi della società e della Chiesa, di scambio di risorse, di corresponsabilità. Come la generazione biologica, anche la generazione alla fede ha bisogno dell’uomo e della donna, di una paternità e una maternità che sanno valorizzarsi a vicenda. Certamente possiamo auspicare che lo Spirito Santo doni alla Chiesa, a tutti i livelli, creatività e coraggio.

Essere consacrate significa vivere “per”, essere al di fuori di se stesse per gli altri. Questo assunto fondamentale è stato sicuramente travisato. In che modo, a tuo avviso, si potrà scardinare dall’interno la convinzione che le religiose sono motore indispensabile e invisibile nella Chiesa?

Fondamentale, io credo, è partire dalla formazione delle religiose stesse. Il Magistero contemporaneo offre una visione e principi molto sani ed equilibrati a riguardo, anche con documenti specifici (cfr. Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica), in alcuni casi non conosciuti dalle religiose stesse. Le Congregazioni dovrebbero scommettere sulla formazione integrale dei loro membri e sull’approfondimento delle loro competenze, e mirare alla loro libertà e responsabilità, secondo la dignità del loro essere persone. Il dono della loro vocazione (che è incredibile potenziamento e fioritura della femminilità), unito ad una sana e robusta formazione, darà alle religiose stesse e ai loro organismi di coordinamento e di governo una maggiore maturità per una riforma dall’interno. Si chiede dunque coraggio e piena responsabilità alle singole persone, ma ancor più a chi ricopre ruoli di responsabilità: il coraggio di un vero discernimento alla luce del Vangelo, che possa smascherare criteri e metodi non evangelici nella guida di una comunità e nelle scelte apostoliche. Un recente documento della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Per vino nuovo otri nuovi (2017), offre notevoli piste per un sano rinnovamento, mettendo in evidenza le sfide aperte che valgono per tutti i religiosi ma in modo particolare per le religiose: carenze formative, eccessive pressioni date dalle opere, schemi maschilisti, sistemi di “reclutamento vocazionale” in paesi poveri, difficoltà di integrazione, mancanza di sussidiarietà… La Chiesa insomma sta guardando con attenzione e cura materna all’universo della consacrazione femminile e sta esercitando la sua correzione.

Credi che una religiosa abbia la possibilità di crescere e riuscire ad occupare ruoli di prestigio nelle gerarchie ecclesiastiche?

Mi sembra che questa domanda parta da presupposti non propriamente evangelici: quelli di una scalata al potere, quelli dell’ambizione. La gerarchia nella Chiesa è un posizione di servizio a favore del popolo di Dio, un ministero affidato ai vescovi, sotto la guida del Papa. Questo non significa che il popolo di Dio, che comprende anche i laici e i religiosi, non abbia importanza, voce, responsabilità. Il battesimo conferisce ad ognuno una funzione regale, sacerdotale e profetica, secondo la propria vocazione. Certamente vanno potenziati e rafforzati, e vissuti con maggiore responsabilità, tutti quegli organi nella Chiesa che permettono una fruttuosa interazione e integrazione tra chierici, laici, e religiosi. Le religiose, alcune delle quali già ricoprono ruoli di responsabilità, ad esempio nei dicasteri vaticani, possono sicuramente dare un contributo maggiore e prezioso nell’attività di governo.

Leggi gli altri articoli dello speciale di Odysseo:

  1. Religiose: valore aggiunto per la Chiesa e la società o domestiche h24?
  2. Donne e Chiesa: è davvero una questione di maschilismo?
  3. Donne e Chiesa: “Siamo delle esecutrici…”