Si dovrebbe provare di tanto in tanto ad allontanarsi, ad uscire di scena
Un sogno alberga nel cuore di tutti: sentirsi speciali, importanti per qualcuno.
Abbiamo bisogno di considerazione, è innegabile. È anche giusto: sentirsi amati, apprezzati, valorizzati in famiglia, tra gli amici, al lavoro fa bene e stimola a dare il meglio. E quando accade di fare qualcosa di davvero speciale, capita sempre di sentirci dire che siamo “insostituibili”.
Insostituibile: una parola capace di accarezzare e, al contempo, trattenere, possedere, complicare le relazioni, triplicare gli impegni. Una parola contraria rispetto al termine cui è connessa: sostituire, da sub-stare, “stare sotto”. L’insostituibilità sarebbe, dunque, una condizione di primazia, unicità, rarità, altissimo onore.
Fin quando la mente regge. Fin quando il respiro non resta soffocato. Perché l’insostituibilità può essere una trappola, per sé e per gli altri e in entrambi i casi c’è di mezzo una dipendenza.
Accade che in certe situazioni tutto dipenda da noi, dalla nostra energia, dalle nostre risorse, dal nostro spirito di organizzazione e intraprendenza. Non è concessa sosta, né assenza momentanea, né crisi, né una semplice defaillance. Nessuno potrebbe sostituirci, lasceremmo un vuoto incolmabile.
Terribile. Per questo occorre pensare più e più volte prima di definirci o, peggio, di lasciarci definire non sostituibili. Il passo dall’onore alla sofferenza è breve.
Se pensiamo al mondo della maternità lo capiamo bene: quante volte il mito dell’insostituibilità ha caricato e carica le madri di pesi incommensurabili, persuadendole a tacere la stanchezza, la frustrazione, la solitudine, il burnout, il bisogno di una boccata d’aria, la necessità di aiuto, la normalità del coinvolgimento di altre agenzie educative nella crescita dei figli. «Per crescere un figlio occorre un intero villaggio», recita un antico proverbio, cui se ne preferisce un altro: «per crescere un figlio serve una madre onnipresente, altrimenti che madre è?». Nel tempo della riflessione sulla violenza di genere, non si possono tacere gli abusi di parole che alimentano disparità e persuadono ad un continuo autosacrificio, in nome dell’unicità indiscussa.
Può accadere anche che gli altri dipendano da noi, al punto da andare in crisi se ci allontaniamo. E non parlo di neonati e bambini, che reclamano giustamente una presenza totalizzante da parte dei caregivers, dalle cure dei quali dipende il corretto sviluppo dell’autostima e della fiducia negli altri. Mi riferisco agli adulti perennemente alla ricerca di un salvatore al quale aggrapparsi, pena lo smarrimento più totale. Sempre a proposito di violenza di genere, il femminicidio ha sempre più spesso alla base il “no” della donna considerata irrinunciabile. Fermo restando che, a prescindere dal genere, reagire male alla libertà di dire “no” denota sempre una devianza su cui porre attenzione.
Vi sono poi casi nei quali la dinamica si inverte, perché chi è considerato insostituibile non matura lo stesso coraggio e alimenta la dipendenza negli altri, magari con le migliori intenzioni e in nome dell’amore. Nemmeno in questo caso c’è bene autentico: la tendenza a rendersi insostituibili stuzzica le corde più intime dell’ego, lì dove si annida la tentazione del potere come controllo degli altri, peccato originale dell’umanità. Così certe realtà familiari, amicali, lavorative, associative producono eterni bambini, incapaci di andare per la propria strada, solo perché chi ha la responsabilità della loro crescita non si decide a mollarli, forse per qualche sindrome messianica perenne.
Una cosa va detta: nelle relazioni speciali e nelle situazioni cruciali del quotidiano e della vita, è indubbia una quota di insostituibilità, perché ci spettano precise, inaggirabili responsabilità e spigolosi, pungenti doveri. E diciamocelo: è pure bello lasciare un segno nella vita degli altri!
Fatta eccezione per questo, si può affermare una cosa importante attraverso un gioco di parole: è quando siamo sostituibili che alimentiamo la sana insostituibilità, senza che nessuno debba né sottostare né sovrastare, come suggerisce l’etimologia.
In altre parole, se si vuole trovare una prova alla bontà del proprio operato, si dovrebbe provare di tanto in tanto ad allontanarsi, ad uscire di scena: non c’è gioia più grande nel vedere che lo spettacolo continua anche senza di noi, non perché non siamo importanti, ma perché lo siamo al punto da far sentire importanti, partecipi e capaci tutti. «Basta mettersi accanto invece di stare al centro» (S. Cristicchi).
Testo molto interessante e piacevole da leggere. Sono convinto che nessuno è insostituibile, è bello poter guardare da fuori ma ci vuole anche il coraggio di sostituire!!