Una riflessione più che attuale nei tempi in cui viviamo
La figura del medico, in una fase della sua riflessione, è diventata per Simone Weil il modello del prendersi cura della sofferenza altrui: della malattia certo, ma, più in generale, del dolore, della sventura, che affligge tanto l’individuo quanto la società. Questa attenzione all’altro, del resto, è sempre stata viva in lei: conoscere le fragilità dei propri simili, farsene carico, costituisce la cifra di tutta la sua esistenza. Il bisogno di confondersi nella massa anonima, di camminare a fianco degli sventurati ha segnato il suo percorso di vita non solo a livello intellettuale, ma anche nell’impegno quotidiano.
Le tappe sono note: l’entrata in fabbrica, la condivisione della condizione operaia, la partecipazione, sia pur breve, alla guerra civile spagnola, ove sperimenta un suo modo originale di “fare la rivoluzione”. A differenza dei compagni miliziani per i quali «i miseri e magnifici contadini aragonesi non costituivano neppure un oggetto di curiosità», Simone va in piazza, a Pina, un piccolo villaggio aragonese, dialoga con i paesani, li interroga, li ascolta, li sollecita a raccontare le loro condizioni di vita, prima e dopo la guerra. Alla fine, laconicamente, nel Diario di Spagna annota: «sentimento di inferiorità molto vivo», osservazione che, nello stile telegrafico che le circostanze impongono, lascia trasparire una capacità di sentire, sulla sua stessa pelle, la sventura, ovunque e in qualsiasi forma si manifesti. Durante i mesi di esilio a Marsiglia, poi, si farà carico delle condizioni di vita degli internati stranieri o politici, gli Annamiti (Indocinesi), abbandonati a se stessi dopo essere stati sfruttati nella fabbriche di armi. Sente l’esigenza di avvisare le autorità, spedire lettere, inoltrare petizioni; giunge persino a far rimuovere un responsabile.
Un esempio d’attenzione – «la forma più pura e più rara della generosità» – è anche la folgorante amicizia che stringe col poeta Joë Bousquet, ferito alla spina dorsale in un assalto della prima guerra mondiale e, da quel momento in poi, costretto, per più di trent’anni, in una dolorosa immobilità nella casa di Carcassonne. Questo rapporto ci fa capire cosa comportasse per lei farsi carico dell’altro, prendersene cura non solo sul piano dell’affettività, con gesti concreti, ma anche su quello, più impervio, d’un cammino di conoscenza condiviso. Il breve incontro, il dialogo faccia a faccia con Bousquet non va oltre una tarda serata, sconfinata nella notte tra la domenica 29 e il lunedì 30 marzo 1942. Eppure, tra loro, vengono pronunciate parole essenziali. Le lettere che si scambiano dopo questo evento ne recano una vibrante testimonianza: non documentano solo l’intensità d’un legame vissuto come squarcio di luce nella notte, ma anche la forza, la radicalità delle riflessioni scaturite dal contatto tra due anime segnate entrambe dallo stigma di una sofferenza di origine e di natura diversa, ma egualmente autentica e profonda. Occasione dell’incontro era stato il desiderio di sottoporre al giudizio del grande ferito di guerra il «Progetto di una formazione d’infermiere di prima linea», con cui Simone Weil sperava di adempiere alla propria vocazione resistenziale. Il colloquio notturno e le lettere scambiate la confermano nella certezza d’aver incontrato un essere d’eccezione che la sventura non è riuscita a piegare. Perciò ha l’audacia di costringerlo a tornare col pensiero sull’evento che aveva sconvolto la sua vita – la pallottola che il 27 maggio 1918, colpendolo alla spina dorsale, lo aveva immobilizzato per sempre – spingendo a scrutarlo a fondo, perché potesse diventare per lui occasione per mutare la sventura nello strumento spirituale necessario a realizzare la sua singolare vocazione umana. Additare all’amico questa possibilità non significava né misconoscerne né minimizzarne lo stato d’infermità. Tanto è vero che, pur avendo capito che l’amico fa uso di droga, non se ne scandalizza, anzi, sfidando la legge, si propone di procurargli la morfina per alleviarne le sofferenze. Al tempo stesso, però, con delicatezza estrema, gli suggerisce che, col ricorso alla droga e ad altre forme di compensazione, sta correndo il rischio di perdere se stesso, di mancare la costruzione di quella «architettura dell’anima» che proprio la cognizione del dolore di cui la vita l’ha dotato potrebbe consentirgli di realizzare. Per guidarlo verso questa verità profonda, gli evoca l’antica immagine dell’uovo cosmico: «Da vent’anni lei va ricostruendo col pensiero questo destino che ha afferrato e poi lasciato tanta gente, che ha afferrato lei per sempre e che adesso nuovamente afferra milioni di uomini. […] Ha soltanto un guscio da forare per uscire dalle tenebre dell’uovo nella luce della verità, e sta già battendo contro il guscio. Si tratta di un’immagine molto antica. L’uovo è il mondo visibile. Il pulcino è l’Amore, l’Amore che è Dio stesso e che abita nel profondo di ogni uomo, da principio come un germe invisibile. Quando il guscio è forato, e l’essere è uscito, l’oggetto della visione è ancora questo mondo. Ma non sta più dentro. […] Lo spazio si è aperto e lacerato. […] Lo spazio, rispetto a com’era dentro l’uovo, si trasforma in un infinito alla seconda o meglio alla terza potenza».
Dialogando con un poeta, Simone non può che ricorrere all’ausilio della poesia e alla potenza del mito per dire l’indicibile. A differenza degli altri amici di Bousquet, che lo frequentavano da più tempo, con coraggio compie il salto oltre quella linea di confine invisibile che spesso tra gli uomini inibisce la parola e blocca l’accesso alla verità. Come avviene solo a chi pratica l’attenzione come forma d’amore, Simone avverte fino in fondo che l’amico come «ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti» e decide di non rimanere sorda a quelle grida.
Le lettere inviate a Joë Bousquet, assieme ad altri scritti sulla sventura e sull’attenzione, si rivelano spesso d’aiuto a chi cura la sofferenza altrui, sia fisica che psichica. Ci sono testi, come L’amore di Dio e la sventura, che vengono offerti ai malati come un farmaco. Chi è precipitato nel male estremo della depressione, nei suoi testi sulla sventura, può trovare le parole per dire la propria sofferenza. E l’uomo attento, colui che cura, colui che si fa carico del dolore altrui, intercetta il grido muto di chi soffre e diventa capace di porre la domanda che lo sventurato attende: «Qual è il tuo tormento?»