“Sono nata il 21 a primavera. Ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta”

(Alda Merini)

Il 21 marzo 1931 nasceva l’immensa Alda Merini. Ed è per questo che da un po’ di tempo questa giornata è dedicata alla poesia.

Si fa presto a dire poesia, troppo presto. Perché si fa altrettanto presto a trattare quest’arte come alternativa al reale, via di fuga dalla complessità, risposta ai problemi, passatempo per vagabondi, cantilena di esistenze scanzonate, irregolarità tenuta buona dai versi.

“Ci vorrebbe un po’ di poesia” diciamo certe volte. E ne siamo convinti davvero. Cerchiamo, inseguiamo, invochiamo bellezza. Desideriamo armonia. E di questi tempi il desiderio è un dovere civico, un’esigenza storica, una questione politica, non una mera inclinazione interiore. Il problema è capire cosa vogliamo intendere quando diciamo di aver bisogno di poesia.

Se immaginiamo il poeta come un giullare astorico, siamo fuori strada. Se pensiamo alla poesia come a un anestetico, pure. Poesia deriva dal greco poièo, che significa “fare” nel senso più concreto e materiale che esista. La poesia realizza, concretizza, dà vita. È parola performante. È celebrazione del reale. La poesia si nutre di realtà, non la aggira, non la rifugge, non la scansa; la poesia emerge dalle cose con potenza, da tutte le cose, quelle belle e quelle meno belle, con la vocazione a fare di tutto un canto alla vita, un inno alla possibilità. Come Alda Merini, che attraverso la poesia ha spalancato orizzonti vasti nell’abbruttimento della malattia mentale, del manicomio, della tristezza patologica e dell’incomprensione. Non è fuggita da tutto ciò, ma l’ha trasformato con il potere generativo delle parole. Quelle da dire e “quelle da non dire”, come amava ripetere lei a proposito delle parole da scegliere per comunicare.

Il poeta fa cose con le parole e insegna a ciascuno a farlo, per umanizzare sempre più il quotidiano. Per alcuni è una vocazione. Per altri uno sforzo. Per altri ancora un’assurdità. Meno si è radicati nella realtà, meno si può fare poesia. Più ci si compromette con la storia e con le storie, più ci si contagia di carne, più si fa e si può fare poesia. Meraviglioso il grande Rilke: “Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti”.

Vecchioni conferma: “io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero e naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo”. Oggi più che mai abbiamo bisogno di poeti. In questa seconda, strana, asintomatica primavera, ancora un po’ freddina, ancora fiaccata, c’è estremo bisogno di poesia per tornare in vita. Perché dal dramma storico della pandemia non possiamo fuggire, e tutte le volte che cerchiamo di farlo, negando e dimenticando, finiamo col peggiorare la situazione. E allora, se proprio dobbiamo restarci dentro, abbiamo bisogno e desiderio di farlo come poeti. Basta guardare le cose con occhi diversi. Le parole fanno il resto. Esse non provengono da noi, vengono incontro a noi dalle cose stesse, le più ordinarie, e chiedono ospitalità, forma, ascolto, mani, voce, espressione, opinione.

Prima per essere poesia, poi per farla. E “scatenar tempesta” nell’attuale tempesta. E “aprire le zolle”, piene di morte, per seminare ancora speranza.


1 COMMENTO

Comments are closed.