
Le radici comuni che non ti aspetti
Nella mia nuova scuola cresce un albero. Si, in mezzo alla scuola c’è un atrio e nell’atrio cresce un alberello, che sta già cominciando la trasformazione più bella dell’anno: il foliage autunnale. Sta lì, non parla e dice tutto, senza volerlo racconta la sua persona storia di resistenza. Cosa ci fa, in effetti, un albero in mezzo al cemento, tra finestre di aule nelle quali, tra l’altro, spiccano suppellettili di legno?
“Che precarietà” ho pensato, vedendolo. Precarietà che poi è anche mia e di tanti colleghi. Ogni anno settembre è il mese dei cambiamenti, delle incertezze, degli incontri che diventano intrecci di vite precarie: c’è chi è stato chiamato a centinaia o migliaia di chilometri dagli affetti più cari e chi è stato spostato senza logica; c’è chi ha subito ritardi ed errori e chi ancora aspetta, e trema di fronte alle scadenze economiche mensili, precise e puntuali; c’è chi ha preso servizio in condizioni incredibili. C’è di tutto.
E poi c’è la precarietà delle famiglie, provate dai lutti, o semplicemente dalla confusione e dalle preoccupazioni del momento, e quella degli studenti, protagonisti di un tempo inedito e difficile. Nelle prime riunione di team arrivano già segnalazioni di ragazzi che entrano a scuola feriti da depressioni e lutti causa Covid, o sferzati da situazioni più grandi di loro. Ed è lì che la mia precarietà, fastidiosa pure nella ricerca di una casa in affitto, mi è sembrata improvvisamente molto, molto sopportabile.
Così, ho scoperto che precario e preghiera hanno la stessa origine etimologica, perché precario significa letteralmente ottenuto con suppliche. L’idea è quella di qualcosa di implorato, di strappato a fatica, dunque privo di garanzie, diritti e stabilità. Umiliante. Allora, come prima cosa, bisogna augurare buon anno scolastico a chiunque sperimenti precarietà nel mondo della scuola, a vario titolo: l’augurio è quello di trasformare questo senso di umiliazione in qualcosa di buono, come quell’albero trasforma la decadenza autunnale in una festa di colori danzanti.
A ben vedere, la precarietà è una condizione di tutti e, soprattutto negli ultimi tempi, l’abbiamo impattata violentemente. E se il punto fisso da cui sollevare il mondo pare un miraggio, dobbiamo sforzarci di credere che proprio entro questa precarietà, di cui ogni giorno facciamo esperienza, è nascosta la stabilità di cui abbiamo bisogno. Paradosso? Forse. Ma se andiamo oltre il senso umiliante di una supplica per strappare un diritto, la preghiera può essere una forma di affidamento che salva dal considerare tutto scontato. E allora la precarietà diventa palestra di gratuità, bontà, dono, riconoscenza, relazioni nuove e, così facendo, è già preghiera, senza che il termine riporti immediatamente alla religiosità. No, in effetti è di più: è affidamento che inaugura un’esistenza migliore, in cui ci si scopre proprietari di ben poche cose, interconnessi con un mondo di altri precari, con i quali condividere condizioni, emozioni, sentimenti, successi, insuccessi, crisi, rinascite. E, per chi crede, iniziare da qui a cercare il volto di quel Dio che si è fatto precario.
Allora, se proprio questa precarietà dobbiamo subirla in molti modi, che almeno essa sia la preghiera umana, spontanea, libera da logori formulari e da pietismi disfunzionali, che dona la fragile stabilità di riconnettersi con il dono della vita e degli altri. E riporta alla bellezza di vivere tutte le stagioni con schiena dritta e fede nel futuro, come l’albero della mia scuola.