“Più entro nel mondo della piccola gente, più il mio mondo, il mondo della gente grande, mi sembra popolato di gente piccola”

Da quando sono entrata nel mondo della piccola gente tante cose sono cambiate. Non ho quasi più tempo per me, di certo non ho più tempo per scrivere. Il mondo della piccola gente è impegnativo. Assorbe più energia di quella che tante volte effettivamente si ha.

La piccola gente non parla. Dunque, a volte, comprenderla è difficile, perché il pianto è l’unica modalità di comunicazione. La piccola gente osserva molto attentamente ogni cosa, fa ogni giorno una nuova scoperta e questo la entusiasma, la stanca e la impaurisce anche. Di notte, infatti, può accadere che abbia più bisogno di contatto. Come dire: “ehi tu dall’altra parte, dall’universo della gente grande, sto scoprendo il mondo…e mi piace e mi spaventa. Ci sei sempre vero? Stammi vicino!”.

La questione è semplice: più entro nel mondo della piccola gente, più il mio mondo, il mondo della gente grande, mi sembra popolato di gente piccola. No, non è un gioco di parole inutile. C’è una differenza abissale tra i due tipi di gente. E più proseguo la mia esperienza neogenitoriale, più me ne rendo conto.

La piccola gente, appena nata, la trovi in braccio a mamma e papà. La gente piccola la trovi nei luoghi comuni, quelli nei quali la tenerezza per un esserino che nemmeno sa di essere nato è un vizio e il suo bisogno di contatto la manifestazione della più subdola furberia. La piccola gente impara a vedere gradualmente. La gente piccola è cieca da un pezzo, così cieca da non vedere i bisogni più elementari di una neomamma e di un neo-papà: “vado a farti la spesa”; “tengo il bambino 10 minuti e tu fai la doccia”; “vengo a trovarti domani pomeriggio”; “come stai?”…non sono frasi, sono dichiarazioni d’amore di chi ancora riesce ad accorgersi del prossimo. Soprattutto di chi non muta il proprio affetto al mutare della vita dell’altro. La piccola gente ha bisogno di tutto, o meglio è il proprio bisogno: è la fame, la sete, il freddo, il caldo, la gioia, la paura di quel momento, tutte cose sconosciute finché albergava nella casa uterina. La gente piccola non ha più bisogno di niente, né di avere, né tantomeno di dare. La piccola gente deve aspettare di compiere 9 mesi per iniziare a percepirsi come un essere distinto dalla mamma. La gente piccola, col proprio sguardo pseudo-pedagogico sulla creatura appena nata, a 50 e pure 60 anni suonati non sa ancora coltivare relazioni sane e insiste in strani rapporti simbiotici e fusionali. Salvo sparire quando glielo si fa notare e ci si salva dalla loro mania di controllo. La piccola gente chiama, cerca in continuazione, anche solo per stringerti un dito o sorriderti per niente. La gente piccola non chiama e non cerca; magari vive sui social, ma tralascia il contatto. Non ne è capace.

Si potrebbe continuare. Quello che mi è improvvisamente chiaro da quando sono mamma è questo: “piccolezza” e “grandezza” non sono sempre valori assoluti, ma possono essere dimensioni molto relative. Anche perché i termini “piccolo” e “grande” sono usati in riferimento a parametri prestabiliti. E il punto è capire la dimensione di chi li ha stabiliti. Oppure la profondità. Insomma, non tutto è così semplice e nettamente diviso. Come sempre.

Una cosa è certa: l’ingresso nel mondo della genitorialità è traumatico non solo e non tanto per il neonato, ma per un circondario non sempre all’altezza della propria presunta grandezza. Di certo non all’altezza della piccolezza più grande che esista, quella di un figlio che, imparando a vivere, insegna a ri-esistere. Scombinando i ritmi. Stravolgendo le giornate. Cambiando l’ordine delle cose e delle parole. Svelando dinamiche inaspettate. E aprendo gli occhi su dettagli non trascurabili. E menomale!