«Dunque: che è? perché, perché restai?
perché tanta viltà nel core allette?
perché ardire e franchezza non hai?»

(Inferno, II, vv. 121-123)

Il secondo canto dell’Inferno non è uno dei più noti e celebrati. Temo sia considerato una sorta di ponte, una passerella più che altro, tra i ben più celebri canto I, quello dell’ingresso nella “selva oscura”, della strada sbarrata dalle “tre fiere” e del primo incontro con Virgilio, e il canto III, quello in cui Dante varca la terrificante soglia infernale.

Nel secondo canto, invece, si parla solo di paure passeggere di Dante e del perché Virgilio, la ragione, le spazzi via con parole di fuoco. Parole che potrebbero risuonare anche troppo veementi, davanti alla paventata (falsa) modestia di padre Dante che qui vediamo nei panni di un bambino balbuziente – caratteristica che lo connota non di rado nella “divina umana” Commedia e che lo accompagnerà sino all’ultimo canto del Paradiso.

Dante, dopo aver ricordato che solo ad altri due esseri umani, Enea e san Paolo, era toccato il privilegio di visitare l’oltretomba mentre erano ancora in vita, chiede:

«Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede»
(Inferno, II, vv. 31-33)

Detto con parole più vicine a noi: «Ma chi sono io per poter visitare l’aldilà? Chi può farmi una tale concessione? Io non sono né Enea né Paolo: nessuno, né io né altri, mi reputa degno di un così grande dono».

E subito aggiunge:

«Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono»
(Inferno, II, vv. 34-36)

Traduciamo: «Per cui, se cedo alla tentazione di seguirti in questo viaggio, ho paura di avventurarmi in una impresa davvero folle. Ti prego, tu che sei saggio, intendi meglio di me ciò che io stesso non riesco ad esprimere col mio ragionamento».

Caro lettore, adorata lettrice,

dimmi: chi a questo punto non loderebbe l’umiltà di Dante? Viene subito in mente il «folle volo» di Ulisse, nel ventiseiesimo canto dell’Inferno, e tutti sappiamo che Dante stesso lo fa finire in un misero naufragio. Come non pensare al parallelismo: Ulisse, campione di tracotanza, Dante, esempio di umiltà?

Ma sarebbe un grave errore e saremmo fuorviati dallo stesso papà Dante. Intanto perché, è noto, il toscanaccio di Firenze aveva il suo bel caratterino e la sua nota fierezza; e poi, anzi soprattutto, perché non è questo che Dante ci vuole qui comunicare. Egli non sta facendo un elogio dell’umiltà, non in questa sede; piuttosto, sta bollando di infamia se stesso e la sua falsa modestia e, con ciò, ci invita a fare altrettanto.

Quante volte, infatti, davanti a un’impresa possibile, ma ardua, ci siano nascosti davanti a ipocrite dichiarazioni di umiltà? Quante volte abbiamo detto: «Non credo di esserne capace», ma in realtà intendevamo: «E chi me lo fa fare? Perché mai dovrei rischiare?».

Ecco, se è capitato a te, così come è capitato anche a me, allora non hai bisogno che ti dica oltre: perché Dante ce l’ha proprio con noi e ci mette a nudo mettendo a nudo se stesso.

Notare l’autoironia: Dante dice di temere di essere “folle”, invoca il “savio” compagno di viaggio, confessa di non saper “ragionare” eppure tutto vuol fare tranne che seguire la voce della sua guida, che è, guarda caso, la voce della ragione.

Capisci ora l’apparente livore delle parole di Virgilio? Dopo aver spiegato a Dante che per lui hanno interceduto ben tre donne – Beatrice, con “occhi lucenti” di lacrime, santa Lucia e la stessa Madonna – Virgilio si rivolge al discolo allievo con la terzina che apre questo nostro caffè e che potrebbe così essere tradotta: «Allora, che c’è? Qual è il problema? Perché indugi? Perché coltivi nel tuo cuore una così grande viltà? Perché non osi? Perché non parli con franchezza?».

Perché non osi osare? Lasciamoci con questa domanda e, prima di evitarla o prima di cimentarci nella risposta, ricordiamo: possiamo mentire agli altri, possiamo anche mentire a noi stessi, difficilmente possiamo mentire alla Vita perché, prima o poi, i fatti parlano di noi ed anche per noi.

Stanisław Jerzy Lec ha scritto: «Nella storia contano anche i fatti non avvenuti» …e non c’è falsa modestia che tenga!

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

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