«Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte»

(Inferno, I, vv. 7-9)

Caro lettore, adorata lettrice,

eccoci già al nostro secondo appuntamento di questo viaggio attraverso la Divina Commedia. Ti ho già spiegato che il proposito non è certo quello di una analisi dotta dei versi di padre Dante: per quello ci sono gli specialisti. Piuttosto, mi limito a offrirti degli spunti tratti da quanto la lettura di ciascun canto mi suggerisce.

Ed ecco, rileggendo il primo canto dell’Inferno, mi ha colto profonda la sensazione che ci troviamo davanti ad un vero e proprio canto di speranza! Già vedo la tua domanda: ma come? si va all’inferno e mi scrivi di speranza?

Già. Proprio così. Prova a rileggere la terzina che ti ho proposto in esergo:

«Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte»

(Inferno, I, vv. 7-9)

Sai bene che essa segue le due famosissime, anzi, famigerate terzine iniziali, quelle in cui Dante ci annuncia che “nel mezzo del cammin” della sua vita si ritrovò “in una selva oscura”, così “selvaggia e aspra e forte” che, al solo ricordo, si sente “rinovare la paura”.

Eppure. Eppure Dante aggiunge che, per quanto sia amara quasi come la morte, Dante in quella selva, cioè alle porte dell’inferno (!), ha trovato il bene ed è per questo che sceglie di raccontarcelo. Sì, proprio così: Dante non scrive di aver trovato il bene “attraverso” la selva, “alla fine” del suo cammino, una volta giunto in paradiso. Dante è chiaro: “per trattar del ben ch’i vi trovai”, cioè “che trovai proprio lì”, non da un’altra parte.

Non ti sembra un motivo di grande speranza? A sentire padre Dante, persino sulla soglia dell’inferno si può trovare del bene! E non penso solo all’inferno dell’aldilà, per chi ci crede e ammesso che non sia vuoto. Penso ai mille inferni esistenziali in cui ognuno di noi precipita senza neppure sapere perché o come ci sia finito. Perché la speranza di Dante, al contrario di quanto letture superficiali o pregiudizievoli possono sostenere, è una speranza laica: per ogni uomo e donna, in quanto tale, prima che per i credenti.

Come posso affermare una cosa simile? Perché leggo Dante e ti invito a fare la stessa cosa. Ancora canto primo, v. 65:

«”Miserere di me”, gridai a lui».

Miserere è un verbo latino, imperativo, seconda persona singolare, e significa: «Pietà di me!», è la parola con cui inizia il salmo 50, il salmo di Davide, il salmo penitenziale per eccellenza. Solo che, a differenza di Davide, Dante non si rivolge a Dio: si rivolge a uomo e, per di più, ad un pagano. A Virgilio.

Mi segui? Dante ci sta dicendo che il bene che ha trovato nella selva oscura, lo ha trovato perché ha avuto il coraggio di pregare un uomo, per chiedergli aiuto; di più, per salvarsi ha dovuto invocare il soccorso di uno che la sua stessa teologia non aveva potuto collocare in paradiso, perché non battezzato. Dante ci sta dicendo che chi chiede aiuto ad un uomo, a prescindere dalla sua fede, si salva. Perché chiedere aiuto è l’unico modo per ricevere il bene.

E non è tutto. Sempre canto I, vv. 112-114:

«Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno

Che tu mi segui, e io sarò tua guida,

e trarrotti di qui per loco etterno».

Traduco: «Per cui io per il tuo meglio penso e giudico che tu segua me, e io sarò la tua guida, e ti guiderò attraverso l’inferno».

Parla Virgilio, che per Dante è l’allegoria della ragione, potremmo dire la ragione umana personificata. Ed è proprio con la ragione che prima si “pensa” e poi si “discerne” il bene dal male. Ecco allora l’umana, laicissima, speranza di Dante: affidarsi a Virgilio, farsi guidare dalla ragione, pensare prima di scegliere, ponderare le opzioni in campo al fine di discernere il bene dal male, un bene maggiore da uno minore, fino ad attraversare, sì, l’inferno, ma alla fine uscirne fuori e tornare “a riveder le stelle”.

Sono grato a Dante. Gli sono grato davvero. Come un figliolo che mai impara la lezione, ma non per questo è meno riconoscente al suo papà che continua amorevolmente e ruvidamente a ricordargliela. E la lezione che mi porto a casa oggi è questa: anche ad un passo dall’inferno si può trovare il bene, per trovarlo bisogna saper chiedere aiuto, una volta chiesto aiuto, per uscirne fuori, bisogna seguire la ragione e attraversare tutto quello che c’è da attraversare.

Ti sembra poco?

Gramsci ha scritto: «Il mio atteggiamento deriva dal sapere che a battere la testa contro il muro è la testa a rompersi e non il muro».
Molto prima di lui, Leonardo da Vinci: «Chi nega la ragion delle cose, pubblica la sua ignoranza».

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

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